La città dopo il virus: pensare a se stessa, ripensare se stessa

la città
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«Ogni città prende forma dal deserto cui si oppone», scriveva Italo Calvino ne Le città invisibili. Il deserto non è solo l’assenza di traffico, di bar aperti, di attività, di persone che camminano, lavorano, vivono.

 

La città dopo la pandemia

La pandemia sta mettendo in discussione le basi stesse della vita urbana. Che sia Milano, Parigi, New York. Ma allora assisteremo alla rivincita della provincia, del contado, della campagna? Non lo sappiamo.

Certo, le città esisteranno ancora. Ma sono già ora le realtà più colpite, per due motivi principali: il primo è la necessità totale di mobilità interna, il brulicare vitale di scambi, interazioni, movimenti. Il secondo è l’imprescindibile bisogno di relazioni con l’esterno: le aree urbane sono nodi di reti globali, necessitano di arrivi e partenze, di connessioni ininterrotte, di apertura totale.

Una città chiusa è per definizione un ossimoro, un controsenso, un baratro. Erodoto scriveva: «La prosperità non rimane mai fissa nello stesso luogo». Un ammonimento a non dare nulla per scontato, una constatazione di come le fortune dell’uomo, delle città, degli stati non siano eterne per destino e neanche per virtù o per diritto divino.

Le città saranno costrette nei prossimi mesi a cambiamenti incredibili nel senso letterale della parola. Ci sarà bisogno di ripensare molto del vivere urbano, dalle abitudini di vita quotidiane al grande hardware che regge la città.

Milano è una delle città che è stata colpita per prima, può sfruttare questo tempo sospeso per pensare a se stessa e ripensare se stessa. Uno sforzo più che mai necessario. Il punto non sarà essere migliori o peggiori di prima, sarà essere funzionanti. Che, se ci pensiamo, è molto di più.

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