Ce l’avevano detto e ripetuto prima di farlo: non ci saranno più le scene del lockdown di marzo. E così è, a otto mesi (domani) dal Dpcm che l’11 marzo 2020 chiuse in casa l’Italia. Dopo quattro giorni di Milano “zona rossa” le differenze con gli scenari di primavera è palpabile.
Sembra più di vivere il contesto della vecchia “Fase 2”, quando dal 4 al 17 maggio era consentita la colazione da asporto nei bar e l’assalto ai parchi (vietato formalmente) veniva tollerato. Restano aperte alcune contraddizioni: si può andare dal barbiere, ma non in un negozio di abbigliamento, si possono acquistare libri, fiori e profumi, ma non un paio di scarpe.
E’ la distinzione, un po’ ambigua, tra ciò che è “stretta necessità” e ciò che non lo è. Il problema, semmai, è di creare una discriminazione anche nel mondo del commercio, che a Milano soffre pure di una crisi di rappresentanza senza precedenti. E’ vero che il raffreddamento della curva dei contagi dipenderà dal comportamento di ognuno di noi, ma è altrettanto evidente come la comunicazione di divieti, restrizioni e deroghe non contribuisca in alcun modo ad alzare il livello di responsabilità.
Gli assembramenti erano vietati anche in spiaggia, ma venivano tollerati. Oggi è vietato uscire di casa se non per necessità di lavoro o salute, eppure i controlli viaggiano sul filo del rasoio tra la necessità di non creare ulteriore tensione sociale e di far rispettare le regole. Si andrà verso uno stop-and-go continuo tra aperture e chiusure. E ce lo porteremo dietro fino a marzo. Il punto è che così rischia di essere ancora più deleterio.