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19. 04. 2024 17:53

Da Milano agli States per vivere in una Tiny House: «Il mio sogno americano è una casa su due ruote»

Davida Carta, milanese negli States, con il marito ha costruito la propria Tiny House in meno di 40 metri quadri: «Siamo pirati del sostenibile: abbiamo meno, ma è tutto nostro e le spese si sono abbattute»

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«Ci sentiamo dalle 13 in poi». La una del pomeriggio. In Italia. Dall’altro capo del telefono e del mondo sono le 7 del mattino, per un’intervista. «Tranquillo, mi alzo con le galline», mi dice un’ex compagna di classe al Liceo che ritrovo dopo vent’anni.

Davida Carta, milanese, è un cervello in fuga. Dall’Italia e da quello che su larga scala viene considerato il benessere. Mente e corpo viaggiano su una Tiny House, costruita insieme al marito Casey negli Stati Uniti, dove vive stabilmente da undici anni. Una casa che si sposta, letteralmente. Ecosostenibile, self made. Un regno che esalta lo spazio e il suo utilizzo, l’applicazione del design a ogni centimetro utile. Con delle ruote alla base. Una dimora grazie alla quale poter cercare e raggiungere la felicità dove l’orizzonte ne indica di volta in volta il luogo.

Davida Carta e la sua Tiny House: «Abbiamo scelto di essere sostenibili»

La prima domanda è semplice: perché?
«Abbiamo fatto una scelta per essere sostenibili. In tutti i sensi. Innanzitutto siamo più liberi finanziariamente. Io non potevo permettermi una casa “normale” e non volevo mettermi debiti sulle spalle. Qui vedo famiglie che passano la propria vita per ripagare tutto, dall’università all’automobile».

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Quanto ci vuole per costruire una Tiny House?
«Noi possiamo parlare della nostra esperienza ed è comunque un lasso di tempo influenzato dalla pandemia. Alla fine, considerando tutto, ci abbiamo messo due anni».

Cosa vi ha impegnato di più in questo biennio?
«Intanto la fase di ricerca. Servono i giusti materiali, le dimensioni corrette. Parliamo di una struttura poco al di sotto dei 40 metri quadri che deve essere in condizione di spostarsi all’occorrenza. Sono case fatte in legno. Tutte le travi, il perimetro. E il legno marcisce. I tedeschi hanno inventato un materiale poroso che permette di far circolare l’aria, aprendosi verso l’esterno d’estate e verso l’interno nei mesi invernali, in modo da far restare asciutta la casa».

Dove si colloca una Tiny House?
«Noi ci sposteremo. Al momento siamo alla ricerca di un posto in cui poter stare. Temporaneamente ci siamo stabiliti in una fattoria in Massachussets, a due ore da Boston e tre da New York. Per il futuro vorremmo un posto in cui si può affittare uno spazio, oppure ci sono altri tipi di soluzioni. Ci sono delle persone che hanno bisogno di assistenza, magari degli anziani. In cambio danno la possibilità di stabilirsi nelle loro proprietà».

Come ti sei sentita quando siete entrati definitivamente nella nuova dimora?
«È diverso da quando fai un trasloco e vai in una casa che non hai costruito tu, ma che hai trovato, che altri hanno fatto crescere. C’è un fattore affettivo, dovuto anche al fatto che essendo ristretti in dimensioni molto piccole conosciamo ogni angolo del posto in cui viviamo».

A spese contenute.
«Direi quasi zero. Come dicevo, non è una questione dovuta alla sola sostenibilità ambientale. Abbiamo una stufa a legno per l’inverno, il che ci permette di inquinare molto meno. Per l’acqua c’è il pozzo della fattoria. L’unica vera spesa è dovuta all’elettricità. Questo ci permette di non avere lo stress per la situazione lavorativa, possiamo sopravvivere con quello che facciamo. Non dobbiamo pensare che a fine mese bisogna pagare il mutuo».

Anche per il cibo fate direttamente da voi?
«Da quando sono negli Stati Uniti ho sempre cercato di stare attenta. In Italia c’è una cultura del mangiare più diffusa. Un buon rimedio in questo senso è certamente la fattoria, come abbiamo fatto noi adesso. Hai la possibilità di controllare quel che mangi, eventualmente di coltivare direttamente da te. E anche questo riduce di molto le spese».

Tu cosa fai nella vita?
«Sono una fotografa freelance. Attualmente faccio l’assistente curatrice in un centro di fotografia».

Possiamo dire che non sei inquadrata in quello che è il “sogno americano”?
«Più che altro, per la mia esperienza, il sogno americano è diventato quello di poter sopravvivere. La gente perde casa perché ha dei debiti. Se non hai più il lavoro ti viene a mancare l’assicurazione sanitaria. Tu vedi New York, Los Angeles, i grandi palazzi. Pensi a quello e ti viene in mente l’America. C’è una percezione del Paese dall’esterno che non è quella reale nella sua interezza. Una vasta porzione degli Stati Uniti è campagne e povera gente».

Credi che l’idea della Tiny House possa avere presa in Italia?
«Io spero di sì. L’unico dubbio, forse, è legato agli spazi verdi necessari per potersi stabilire. Qui sono enormi, fondamentali sia per poter costruire che per parcheggiare. Non è un camion: è una casa. Non puoi metterti tra una macchina e l’altra in fondo alla via. Ci sono delle necessità a cui far fronte».

C’è una regolamentazione in materia?
«No, almeno qui negli Stati Uniti. E torniamo al discorso dei costi: non vengono tassate. È come se fossimo un po’ dei “pirati”».

Con un’idea forte, nella società fatta per la crescita.
«È quella di ridurre ciò che possediamo. Le cose che abbiamo più vicine a noi sono nostre. Poche, ma nostre».

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