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19. 04. 2024 07:26

Dargen D’Amico si racconta prima di Sanremo: «Il presente lo abbiamo capito. Adesso, Milano, portaci il futuro»

Attesa e curiosità per Dove si balla e l’esordio sanremese di Dargen D’Amico, che racconta la sua città senza risparmiarsi: «È da sempre la punta dell’iceberg delle mie sensazioni»

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«Da bimbo il Festival l’ho proprio vissuto intensamente, mi facevo comprare le cassettine e le compilation da mia madre che al tempo andavano forte. Poi, quando negli anni Novanta ho cominciato a entrare nel tunnel del rap, ho capito che per me non c’era spazio e che avrei dovuto aspettare il mio momento». Per il milanesissimo Dargen D’Amico quel momento arriva dopo i quarant’anni, soprattutto dopo due anni tanto complessi quanto ricchi di produzione che il “cantautorap” vorrebbe vedere ben presto raccontati in un nuovo album. Intanto c’è Dove si balla, antidoto alla noia che promette scintille sul palco dell’Ariston.

Dargen D’Amico è pronto per il Festival

Avevi “fame”, racconti nel brano. È il momento giusto per Sanremo, insomma.
«Diciamo che il mio concetto di “fame” parte da un rapporto sregolato con il cibo che mi ha portato, a quarant’anni, a mettermi in mano a un nutrizionista. Poi, però, “fame” è diventata una metafora della spinta verso la sopravvivenza».

Un fattore perlopiù psicologico?
«Penso centri il fatto che, negli ultimi due anni, ho dato al cibo un valore affettivo. E non credo di essere stato l’unico. Quindi quando ti stacchi dal cibo devi capire perché lo fai e in che direzione devi andare».

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Intanto una delle tue direzioni è sempre Milano, no?
«Senz’altro continua ad essere la punta dell’iceberg delle mie sensazioni. Sono molto legato a quello che accade quotidianamente. Milano è la più attuale delle nostre città, forse fin troppo attuale. Continua a piacermi il suo pragmatismo, riesce ad essere nel futuro anche culturalmente dando l’idea di una nuova popolazione con costellazioni di riferimento da tutto il mondo. E traghetta questo Paese verso il suo domani».

Ma la pandemia credi abbia un po’ bloccato la Milano culturale?
«La pandemia ha bloccato tutto, ovunque. Senz’altro se qui blocchi dei progetti lo avverti di più perché blocchi il motore, la propulsione del Paese. Ed è un po’ la condizione che racconto in Dove si balla. Tutto parte dal momento storico, non potrebbe essere altrimenti».

Quindi Dove si balla parte da un’urgenza autobiografica.
«Viviamo in un periodo in cui l’individuo e la collettività sono sempre più portati a provare le stesse sensazioni, quindi nel momento in cui scrivi qualcosa di personale in questo momento ci sono buone probabilità che incarni i pensieri di molti altri».

Una frase in particolare che isoleresti dal brano?
«Non saprei. Probabilmente se avessi avuto un’unica frase mi sarei fermato a un haiku. Invece è un corso di parole che parte dall’abitudine di pensare troppo e di voler trasformare il pensiero in movimento. Impossibile chiuderla in due righe».

Haiku non a caso, visto che ami molto il Giappone.
«Il Giappone ti dà quello che cerchi. È difficile che ti metta di fronte a qualcosa che non volevi conoscere. Dipende anche dal momento della tua esistenza in cui lo incontri e lo vivi. Poi, certo, a Tokyo c’è tutto: pace, confusione, futuro, tecnologia, tutto compresso in una baia».

E a Milano cosa manca di queste cose?
«Banalmente da noi esiste solo l’individuo. Quindi parliamo di due culture quasi all’opposto».

La pandemia, certo, non ha allentato questo aspetto.
«Oggi è proprio più difficile cogliere il segnale dell’altro, entrarci in contatto, essere curiosi ma non per se stessi. È molto più difficile interagire. E non è solo una questione di regole, perché avremmo anche i mezzi per mantenere i meccanismi un po’ oliati. Penso dipenda da una buona dose di disperazione che stiamo vivendo».

In Amo Milano, tornando un po’ indietro col tempo, citi Dalla, Battiato e Jannacci.
«È il mio cantautorato di riferimento, sì».

Per questo mi ha incuriosito la scelta della tua cover: La bambola di Patty Pravo.
«Essendo loro tre divinità per me, ricordi che mi riportano all’adolescenza, per me non sarebbe solo rifare una canzone. Ci sono troppi momenti, troppe sensazioni legate ai loro brani».

Luogo di Milano in cui ti senti più in pace in assoluto?
«Chinatown. È spesso affollata, ma riesce a tranquillizzarmi».

Luogo che eviti?
«Non che non mi piaccia, però in Darsena è sempre tutto molto faticoso. Quando esco di casa, non vado a cercarmi la fatica».

«È bella da tagliarsi le vene», insomma.
«Esatto (sorride, ndr)».

Ti hanno coinvolto per il FantaSanremo?
«Sì, sono molto rispettoso perché mi sembra quasi una religione. E tendo a rispettare le religioni».

Quindi sai che c’è un malus per chi sale sul palco con gli occhiali da sole…
«Sì, ma mi hanno detto anche che mi perdoneranno nel caso in cui dovessi portare dei bonus. Cercherò di accontentare un po’ tutti, d’altronde è Sanremo: lo faccio qui e non lo farò mai più».

E quindi poi cosa farai?
«Non ho minimamente idea di quello che potrà succedere dopo. Certo, dovessi scegliere io, mi piacerebbe che uscisse un disco. Negli ultimi due mesi ho lavorato giorno e notte, quindi il materiale c’è, ma non sta solo a me decidere cosa e come».

Consigli sanremesi del tuo amico Fedez?
«Lui l’ha vissuta con un’altissima dose di stress, quindi non mi sono sentito di accettare consigli da lui su questo».

Suggerimenti buoni che hai ricevuto, invece?
«Mi hanno consigliato di non essere schiavo del momento, di guardare al gioco che c’è alla base di tutto. Io credo che la competizione sia più per il pubblico che per noi. Per i cantanti conta tornare su un palco con un’orchestra. Io non mi esibivo dall’estate del 2019».

Tante realtà e tanti club storici hanno dovuto chiudere anche nella nostra città.
«Io credo che il discorso che riguarda la dignità della vita delle persone vada sottolineato: un Paese che abbandona una categoria intera non è un Paese democratico, quindi la vergogna dovrebbe essere il punto di partenza per stimolare il sistema a prendersi cura della musica. Che si è sempre presa cura di noi».

Anche perché la mancanza di educazione culturale si fa sempre più pressante.
«Molto. Pensiamo a ragazzi che già oggi fanno fatica a crescere emotivamente perché sono costretti a districarsi fra chiusure, quarantene e solitudine».

Cosa diresti a chi ha in mano il nostro, il loro futuro?
«Ok, il presente lo abbiamo capito. Lo abbiamo vissuto e descritto abbastanza bene. Io comincerei a muovermi».

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