Chi più di lui può raccontare come si è evoluto il mondo della ristorazione, e non solo, a Milano in questi 10 anni? Con il suo Carlo Cracco in Galleria, dal 2018 lo chef ha il suo quartier generale nel salotto di Milano, ma i suoi progetti in città risalgono a molto prima, come racconta lui stesso.
Carlo Cracco: «Questo premio lo vivo con grande orgoglio perché in questa città ho cominciato a crederci quando non lo faceva nessuno»
Carlo, cosa significa questo premio per lei?
«Quando posso, i premi li rifuggo perché vengono assegnati o quando si è vecchi o quando non hai avuto abbastanza. Questo di Mi-Tomorrow, invece, lo vivo con grande orgoglio perché in questa città ho cominciato a crederci quando non lo faceva nessuno. Sono arrivato negli Anni ’80, molti colleghi mi hanno dato del pazzo perché, mi dicevano, a Milano contano solo i soldi. Invece per me questa città è sempre stata un centro di gravità: un posto pieno di energia dove accadono le cose. Una città che accoglie e se lo meriti ti valorizza. È il massimo per persone come me che vengono dal “paese”, i cosiddetti “giargiana”. Credo che sia la bellezza di questa città così piccola rispetto alle metropoli, ma estremamente performante».
Milano è ancora quella degli Anni ’80?
«Come la cucina è diversa da quella del passato, anche Milano è in perenne cambiamento. Siamo noi a dover stare dietro alla sua evoluzione e a interpretarne il cambiamento».
Lei è cambiato negli ultimi 10 anni?
«Con l’avvio di questo progetto cui tenevo molto, ho ridefinito gli obiettivi che vanno oltre Cracco in Galleria. Per esempio c’è il progetto di collaborazione con la fondazione TOG e l’associazione Maestro Martino (fondata nel 2011 dallo stesso Cracco per promuovere le generazioni future della ristorazione italiana attraverso la formazione, ndr). Siamo parte del progetto da almeno dieci anni: prima con le cene solidali, poi con il progetto di viale Jenner per la trasformazione delle ex docce pubbliche nel Centro TOG Carlo De Benedetti. Adesso con l’apertura di TOG Bistrot, ristorante solidale con caffetteria in cui l’inclusione sociale e la formazione si uniscono per sostenere le generazioni future».
Cosa l’ha spinta a esporsi, anche economicamente, per un progetto come Cracco in Galleria quando il suo “Cracco – Ristorante in Milano” andava bene?
«La voglia di cambiare. L’avevo già fatto con il passaggio da Cracco Peck a Cracco – Ristorante in Milano che, però, era… sottoterra. Volevamo spostarci sempre in centro, e quando ho capito che poteva esserci l’opportunità della Galleria, ho realizzato che poteva essere un progetto unico. Per la questione economica, sono sempre andato avanti un passo dopo l’altro ponendomi sempre obiettivi più importanti. A distanza di qualche anno posso dire che sono molto contento».
La ristorazione a Milano, cresciuta esponenzialmente in 10 anni, sta vivendo continue trasformazioni. Affiancare un bistrot al ristorante d’alta cucina è un modello per affrontare la crisi?
«La crisi c’è per tutti, soprattutto per chi non si sa trasformare e cogliere le opportunità che ogni crisi porta con sé. Credo che bistrot, caffè, pasticceria siano territori sfidanti per un ristoratore che ambisce alla qualità. Una volta chi faceva ristorazione stellata non andava oltre per snobismo, invece non c’è attore migliore per sviluppare altri format. Chi riesce a fare una cucina di qualità, può fare anche cose più semplici».
A Milano spopolano le aperture delle catene della ristorazione: ha mai pensato di replicare Cracco Bistrot?
«Quello delle catene è un modello che non ci appartiene. Replicare Cracco Bistrot non è un obiettivo al momento, ma nella vita mai dire mai. Noi vogliamo creare valore, cogliere opportunità come quella dell’apertura di Cracco Portofino con cui abbiamo ridato vita a un ristorante storico».
Dopo tanti anni si sente un po’ milanese?
«Se il vero milanese è quello che viene da fuori, allora sì. Milano è la città dove sono arrivato a 20 anni: quando dopo 3 anni con Marchesi l’ho lasciata per fare esperienza altrove, era qui che volevo tornare e ci sono riuscito».
Comprende quindi il desiderio comune di tanti attori della ristorazione di voler aprire a Milano?
«Eccome, Milano è la vetrina migliore, ma allo stesso tempo più competitiva e la più difficile. Un banco di prova generale per fare il salto di qualità».
C’è qualcosa che manca?
«A parte il mare, nulla! Scherzi a parte, Milano può dare ancora tanto in fatto di produzione locale, regionale e riscoperta delle origini. Io, per esempio, ho inserito le rane in menù».
La televisione le ha dato o le ha tolto?
«Mi ha dato tanto in termini di notorietà. Poi c’è quella parte economica che mi permette di dedicarmi ai miei progetti. Lasciati Masterchef ed Hell’s Kitchen, fra poco uscirà la terza edizione di Dinner Club su Netflix, un programma che adoro perché riassume la missione del lavoro dello chef: conoscere nuovi territori e ingredienti».
Tra i progetti c’è anche quello di Vistamare, azienda agricola in Romagna.
«La ciliegina sulla torta, un progetto mio e di Rosa (Fanti, la moglie, ndr) legato a tutta l’attività perché parte del vino, dell’olio, della frutta è utilizzato nei nostri locali. L’anno prossimo apriremo anche l’agriturismo: ci saranno quattro camere e qualche tavolo per le degustazioni. Un modello di ristorazione semplice, meno accademico ma importantissimo, perché legato al territorio».
Carlo Cracco, chi è
Da sei anni Carlo Cracco ha insediato il suo quartier generale alla Galleria Vittorio Emanuele II con caffè, pasticceria, bistrot, ristorante e spazio eventi distribuiti in 5 piani e poco più di 1100 metri quadri di spazi comunali cui lo chef, vicentino di Creazzo, ha curato la ristrutturazione dopo averne avuto l’assegnazione per 18 anni. Oggi la presenza di Carlo Cracco è diventata un emblema del salotto di Milano. E da simbolo della Milano che non si ferma mai, lo chef è tra i premiati con il premio GustaMi di Mi-Tomorrow.