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19. 04. 2024 23:26

Dai fronti dell’emergenza: i protagonisti raccontano tutti i colori della pandemia. Il video

La pandemia ha tanti colori: una “filiera” di storie tra rischi, paure, emozioni. In una parola: vita

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Parco di Trenno in via Novara, a Milano. Prosegue incessante l’opera del drive through per i tamponi rapidi dedicati agli studenti e tutto il personale scolastico, docenti e non solo. La struttura è organizzata dall’Esercito italiano: cinque tende tensostruttura e una zona parcheggio grande 20mila metri quadrati.

Sono otto le linee dedicate ai tamponi rapidi e una per i tamponi molecolari. La struttura consente di effettuare fino a 800 tamponi al giorno. «È il drive through più grande d’Italia», ripete come un mantra da giorni il maggiore Luigi Luciani. «Abbiamo organizzato tutto in tre macro aree. La prima coinvolge la parte amministrativa, la seconda è dedicata ai tamponi rapidi mentre la terza a quelli molecolari».

In ogni postazione è presente un medico e un infermiere, con il camice di protezione e sotto la divisa da militare. «Facciamo una media di 400 tamponi antigenici al giorno, con una percentuale di positività del 10% circa», evidenzia il dg dell’Asst Santi Paolo e Carlo, Matteo Stocco.

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Stocco, quando arriva una macchina che percorso deve seguire?

«Dopo l’ingresso, si arriva nella tenda principale: i medici e gli infermieri militari si dedicano alla prima fase di tamponi. Quando riscontriamo delle positività inviamo i tamponi molecolari ai nostri laboratori per ricevere una conferma dell’analisi effettuata».

Per quanto riguarda l’organizzazione, avete riscontrato qualche problema?

«I militari sono molto attenti al rispetto delle regole e della stessa organizzazione. Ci muoviamo in maniera molto coordinata. C’è molta disciplina, anche noi che siamo il personale amministrativo stiamo imparando da loro».

Come personale amministrativo, di cosa vi occupate esattamente?

«Siamo collegati con il CUP dell’ospedale. I dati elaborati qui vengono immagazzinati nei nostri archivi in ospedale, nei fascicoli sanitari. Viene poi di conseguenza aggiornato lo stesso fascicolo sanitario del paziente che si sottopone al tampone».

Avete già qualche progetto per il futuro, anche a brevissimo termine?

«In questo momento, il fatto di avere una superficie così grande e ben organizzata è una grande fortuna. Abbiamo una capacità produttiva che ci garantisce, in caso di una nuova impennata dei tamponi, la possibilità di utilizzare anche questo spazio».

Riuscite un po’ ad alleviare il lavoro degli ospedali, dunque.

«Possiamo fare un discreto numero di tamponi anche qui e la metodica è proprio la stessa degli ospedali. È molto importante avere questo spazio per aiutare gli ospedali nella loro organizzazione. Siamo anche a pochi chilometri dal San Carlo: questo aiuta sicuramente».

Sono diminuiti anche i numeri di tamponi negli ospedali?

«Sì, certo. Non facciamo più i 1.400 tamponi al giorno che facevamo prima, ora siamo attorno ai 1.000 negli ospedali Santi Paolo e Carlo. Si va solo su prenotazione e con una richiesta del medico, quindi ad oggi registriamo un calo».

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Come state vivendo questo momento?

«Con tantissime difficoltà, alcuni pazienti si sono ammalati nuovamente e questo vuol dire che la risposta immunitaria non ha una grande durata. Senza vaccino sarà molto complicato sconfiggere questa malattia. È difficile accettare che alcune persone siano morte e altre siano del tutto asintomatiche».

Che risposte avete ricevuto dai pazienti e dai cittadini?

«Gli anziani sono fatalisti, i giovani menefreghisti e i bambini hanno interiorizzato la paura dei genitori. Sono spaventati».

Voi avete paura?

«Diciamo che è più pericoloso andare a fare la spesa. Con le protezioni siamo tranquilli, in ambulanza ci sentiamo sicuri. Resta alta l’allerta da parte di tutti. Faccio il volontario da trent’anni e non ho mai visto la paura».

Cos’è cambiato in trent’anni?

«Quello che è cambiato nel resto della città: c’è più freddezza, è più difficile radicarsi nel territorio. Ora è tutto più difficile per noi volontari, lo è anche per la città».

Che cosa rende il volontariato “difficile”?

«La crisi economica ha lasciato poco spazio per le attività di volontariato. Ora si lavora di più, è necessario farlo. Le relazioni umane in generale sono più diluite».

C’è stato qualcuno che ha smesso proprio in questo momento?

«Nessuno. È una cosa che facciamo perché ci piace, è un’esperienza umana unica. Non è paragonabile con altre, sappiamo che dietro alle facciate della case c’è un mondo che non si immagina».

Cosa si nasconde dietro quelle facciate?

«La crisi, un mondo pazzesco di bisogni e necessità e soprattutto di solitudine. La gente ha tante domande senza risposte».

Come reagite davanti a queste cose?

«Noi non possiamo fare molto, purtroppo. Lasciamo le cose così come sono, anche se siamo l’unico appiglio per queste persone. Dovrebbe esserci una struttura parallela per dare una risposta concreta».

Cosa vi lega a quest’associazione?

«Personalmente il ricordo di Renato, un ragazzo di 18 anni che è mancato durante un servizio in ambulanza quando avevamo appena iniziato quest’avventura. Era il 1967».

Cosa successe?

«Uno scontro con un autobus in via Pola. Alcuni ricordi sono sfumati nel tempo. Ma non posso dimenticare di aver avuto la sensazione fisica di essere con la testa al contrario. Per la prima volta, noi soccorritori eravamo le vittime».

Cosa avete provato?

«Amarezza, dolore, dubbi e tanta paura. Siamo stati ad un passo dal chiudere l’associazione, ci era crollato il mondo. La nostra “immortalità” non esisteva più. È venuta la madre di Renato che ci ha detto che suo figlio avrebbe voluto continuassimo: siamo andati avanti per lui. La sua eredità ci ha sollevati».

Come ricordate oggi Renato?

«Abbiamo una sua foto in una stanza dell’associazione. Ci sono anche dei pezzi di quell’ambulanza. Ogni tanto parlo con lui, mi ascolta».

Qual è il ricordo più bello di questi trent’anni?

«Sono tantissimi, come i racconti dei miei colleghi. Recentemente un equipaggio ha ripreso da un arresto cardiaco un signore di 38 anni. Settimane dopo abbiamo incontrato la famiglia. I loro occhi… Non so descrivere l’emozione, ma posso dirle che il senso del nostro mestiere sta qui».

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