Milano, sabato scorso: una giornata che difficilmente dimenticheremo

Un mese esatto dopo il primo contagio, alla vigilia dell’ultimo decreto governativo: una giornata che difficilmente dimenticheremo. L’abbiamo vissuta così, provando a fare il nostro lavoro tra mascherine, guanti, fotografie e la più grande dose d’incredulità

Sabato 21 marzo 2020. Ad un mese esatto dal primo contagio, dalla prima zona rossa, dai primi allarmi, qualche ora prima del decreto governativo più restringente tra quelli emessi dall’inizio della pandemia, abbiamo deciso di vivere una giornata insieme a Milano. Insieme alle sue strade vuote, ai mezzi di trasporto, alle camionette della Polizia e alle automobili della Locale. Insieme al suo silenzio che più assordante non avremmo potuto immaginarcelo, organizzando un percorso, sì, centrale, ma abbracciando un’area piuttosto vasta.

 

 

Da via Paolo Sarpi – da una Chinatown prima epicentro ripudiato e quindi epicentro di solidarietà in un’asse Cina-Italia semplicemente da applausi – alla città nuova con corso Como e piazza Gae Aulenti in testa. Quindi il Duomo, dalla Galleria a corso Vittorio Emanuele, dove si concentrano misure da coprifuoco forti, impenetrabili. Infine la Darsena e il Naviglio Grande: una movida, quella di Milano, che non c’è più, le saracinesche abbassate, qualche artista rintanato a dipingere, una secca ancora più triste in tempi di quarantena.

Milano, sabato 21 marzo 2020

Chinatown. Mascherina, guanti, gel igienizzante. Partiamo all’ora di pranzo. Via Paolo Sarpi, via Bramante, piazza Baiamonti, via Montello non sono né più, né meno di quel racconto che va avanti ormai da un mese. E anche di più. Era il 31 gennaio quando l’assessore al Lavoro Cristina Tajani promosse insieme a Confcommercio un pranzo solidale in via Lomazzo per sostenere le aziende cinesi e, di riflesso, l’economia di Milano: «Dobbiamo distaccarci da fenomeni irragionevoli, che non hanno un fondamento scientifico. Il messaggio è quello di fare affidamento alle notizie diramate dalle autorità sanitarie e di non creare allarmismo. Invitiamo a non evitare di frequentare luoghi tipici e popolati da cittadini cinesi». Era solo l’inizio. Anzi, era prima dell’inizio.

Milano, Paolo Sarpi
Milano, Paolo Sarpi

Perché per molti giorni Milano ha continuato a vivere come se nulla fosse, come se il contagio – in fondo – non potesse avere forza sufficiente per arrivare a trafiggerci anche qui. Eppure solo un giorno prima, il 30 gennaio, il premier Giuseppe Conte aveva annunciato la chiusura del traffico aereo da e per la Cina. Oggi la Chinatown milanese non ha grandi differenze dal resto della città: attività chiuse, qualche rider per le consegne a domicilio, le ronde delle forze dell’ordine che attraversano perpendicolarmente via Paolo Sarpi. Le ruote sui sampietrini di piazzale Baiamonti fanno l’eco. All’imbocco con via Farini si sente della musica: prima Io voglio vivere dei Nomadi, poi Bella ciao. Solo dopo un po’ un ragazzo si affaccia alla finestra, petto nudo, ci saluta e grida un “Forza ragazzi!” talmente forte che sembra rimbalzare da un palazzo all’altro, da un lato all’altro della via. Sarà un hype di ottimismo in un pomeriggio soleggiato, ma tutt’altro che vivo.

Piazza Gae Aulenti. Attraverso viale Pasubio, arriviamo rapidamente in corso Como. Sembra il deserto delle sette di mattina, di quando le discoteche hanno da poco chiuso e le attività diurne si stanno accingendo a sollevare le saracinesche. Un vuoto cosmico regna anche sulla scalinata che apre a piazza Gae Aulenti. Dove lo scenario, però, muta rapidamente. Prima una, poi due, cinque, dieci, cinquanta: una serie infinita di persone rispetta sommariamente le direttive, garantendo distanze a spanne l’una dall’altra. Le mascherine si contano sulle dita di una mano.

Piazza Gae Aulenti
Piazza Gae Aulenti

«Non si trovano più e ci ho rinunciato», ammette un signore in coda. In coda, sì, per fare la spesa al supermercato interrato. È una coda che sembra infinita, che parte dalla scala mobile al centro della piazza, si svasa lungo le fontane spente, quindi prosegue a ritroso raggiungendo gli IBM Studios e insistendo ancora fino alle scale che danno su via Melchiorre Gioia. C’è gente sulle scale, sempre a debita distanza. E la fila, inutile dirlo, continua anche una volta che le scale sono terminate. In tanti con sacchetti di tela alla mano, qualcuno in coppia. Due ragazzi mano nella mano, una commistione di ribellione (probabilmente) inconscia e di grande, grande voglia di normalità.

Duomo e Galleria. Ci dirigiamo verso piazza della Repubblica, “sfruttando” via Turati come porta per il centro città. Si condensa la presenza di forze dell’ordine, tanto quanto si assottiglia quella di cittadini. Piazza Cavour, via Manzoni, quindi piazza della Scala. Solo il passaggio dei tram rompe una quiete ormai familiare e praticamente senza sosta. Sono i prodromi all’ingresso in Galleria più straniante che si possa raccontare. Un coprifuoco completo, una cartolina inaspettata, un panorama utopico rotto solamente dall’incedere di un signore – borsa della spesa in mano – stranito a sua volta dalla nostra presenza. Ogni passo un rimbombo, ogni sguardo pura incredulità.

Milano, Galleria
Milano, Galleria

E il meglio, o il peggio, deve ancora venire: poco più in là, tra Motta e Camparino, si intravede la piazza. I convogli della Locale, le camionette della Polizia, un assembramento indisturbato di piccioni. Gli ingressi recintati e sorvegliati da militari. Il sole che riflette sulla pavimentazione. E un cartello che prende il posto dell’insegna di un’edicola: «Andrà tutto bene». Intanto i carabinieri redarguiscono due persone intente a fare footing, come se nulla fosse. Chiedono anche a noi perché siamo lì. Siamo a raccontare e a testimoniare qualcosa di straordinario. Basta quello. «Mamma non hai idea». Intercettiamo le parole di un rider al telefono, mentre sfreccia con la sua bicicletta davanti al Duomo. Non gli pare vero. E non sembra vero nemmeno a noi, in uno scenario che – forse – si sarà vissuto in qualche estate del boom economico, di almeno cinquant’anni fa. Un Truman show suggestivo, ma per nulla divertente, tra mascherine che dopo un po’ annebbiano perfino la concentrazione e guanti che, da bianchi, cominciano a diventare gialli. Chissà che cosa avranno raccolto. Che sia solo un riflesso del sole. Che sia altro.

Piazza Duomo
Piazza Duomo

Darsena e Naviglio Grande. È un pomeriggio intenso, ma non ancora terminato. In macchina abbandoniamo il centro, costeggiamo Cadorna, imbocchiamo via Carducci, via Olona e quindi viale Papiniano. Traffico sempre molto ridotto, pattuglie presenti, ma verso la Darsena qualcosa sembra muoversi un po’ di più. È come se la regina incontrastata della movida, pur nella massima restrizione, non voglia totalmente abdicare. Qualche mercato aperto, un cittadino ben protetto dalla sua mascherina con filtro parla con due militari. Addirittura due persone sfruttano i gradoni accanto ai mercati per fare qualche esercizio fisico. Piazza XXIV maggio è snodo cruciale, impossibile immaginarla completamente vuota. Ma, anche qui, il panorama cambia a pochi metri di distanza.

Milano, Navigli
Milano, Navigli

La movida del Naviglio Grande non esiste più. E non è solo un modo di dire. Il tramonto sull’acqua, con il Naviglio peraltro in secca, è l’unico punto di minima attrazione. Niente luci e tavolini, niente musica in diffusione, nessuno che passeggia. Un altro mondo. Un altro mondo. Certo, c’è sempre quella porta a dare speranza. Quella porticina gialla, con un cuore disegnato. La porta che apre al laboratorio dell’artista Gregorio Mancino. Di lui parleremo un’altra volta, del suo contributo alla causa parliamo ora: sopra la porta, un cartello con una tromba vera e proprio e, poco sotto, la scritta “Carica Italia”. Gregorio è chiuso (anche se non abbandona il suo laboratorio), ma un domani molti vicino riaprirà. Come riapriranno tutti. E allora carica, Italia. Carica, Milano.

Carica, Italia. Carica. Milano!
Carica, Italia. Carica. Milano!