«Era come se volessero dimostrare un riscatto attraverso una violenza eccessiva e ostentata».
A pronunciare questa frase, un ragazzino rapinato dalla baby gang di Porta Genova, sgominata ormai venti giorni fa, ma su cui il silenzio è calato piuttosto in fretta anche in virtù della nascente (e perdurante) emergenza sanitaria.
Minori. I tre giovani arrestati rientrano a far parte di quella categoria definita giuridicamente come “minori stranieri non accompagnati”. Sono tutti egiziani provenienti dal sud della terra dei faraoni, uno dei luoghi più poveri del paese arabo. Ogni anno centinaia di adolescenti partono da queste zone convinti di essere accolti e ottenere piena assistenza in Italia: la realtà che trovano davanti i loro occhi, una volta approdati qui, è però completamente diversa da quella che immaginavano.
Accoglienza. Il nostro sistema di accoglienza, nonostante l’impegno profuso, si è trovato impreparato davanti alla crescita del fenomeno migratorio non riuscendo a mettere in campo gli strumenti adeguati per gestirlo al meglio. I ragazzi in comunità, colmi di speranze vanificate, hanno così spesso preferito la via della fuga. E, al di fuori dei centri, il “branco” si è dimostrato l’unica forma di famiglia disponibile.
Parola all’educatore. Per quale motivo un minorenne intraprende un percorso di devianza? Frederic Raso è un giovane educatore che presta servizio presso una comunità dedicata proprio ai minori stranieri non accompagnati.
Raccontando il suo lavoro quotidiano, non esita ad indicare nella mancanza di una figura di riferimento adulta la causa dei loro comportamenti evasivi e illegali: «La presenza di un genitore, o di un qualunque adulto al quale il minore si senta unito tramite un legame affettivo, è fondamentale per lo sviluppo di un progetto di socializzazione corretto». L’adulto funziona da filtro e da guida in grado di indirizzare il minore verso una buona condotta. Quando questo viene meno, il giovane sprofonda nell’incertezza e ricerca i valori persi della famiglia in nuovo gruppo come le stesse baby gang: «Il leader della baby gang ricopre il ruolo di quella guida perduta – prosegue Frederic –: è anch’egli semplicemente un ragazzino, ma le esperienze criminali pregresse lo rendono agli occhi dei suoi pari un modello da seguire».
Persi nell’individualismo. Gli strumenti sociali per contrastare la situazione sono carenti: «Mancano risorse: gli assistenti sociali sono sovraccaricati da nuovi casi e non hanno i numeri per gestirli come vorrebbero». Ma non è solo un problema di fondi: c’è qualcosa di più profondo che si insinua nelle crepe della nostra società.
Rete. Il nostro modo di rapportarci con l’altro sta velocemente cambiando. Siamo sempre più social e smart, ma irrimediabilmente deleghiamo i rapporti umani alla tecnologia. E le prime vittime sono proprio gli adolescenti che trovando a fatica un modello di riferimento valido lo ricercano spesso e volentieri nei media. «Per combattere il disagio giovanile è necessario un lavoro di rete che coinvolga scuola e famiglia – chiosa Raso –. Purtroppo viene sempre meno un apporto comunitario: i vecchi e buoni rapporti di vicinato non esistono più».
Dieci domande a Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra
«L’adolescenza diventa il loro presente e l’unico mondo possibile»
Il professor Gustavo Pietropolli Charmet è tra i maggiori psichiatri esperti di adolescenza e fenomeni di devianza giovanile, con all’attivo numerose pubblicazioni sul tema. Ricopre anche la carica di presidente onorario e direttore clinico dei Servizi 12-18 dell’Associazione CAF di Milano, attiva nella tutela dei minori sul territorio dal 1979.
Professore, si registra un incremento delle situazioni di devianza giovanile a Milano?
«Diciamo che esistono problemi più gravi rispetto al passato. Il contesto attuale è indubbiamente molto diverso in confronto a quello di alcuni anni fa».
Tra i “nuovi” problemi, inserisce anche il fenomeno baby gang?
«Certamente. Stiamo vivendo nelle città italiane un fenomeno che fino a qualche tempo fa interessava solo le grandi città oltreoceano e le principali capitali europee».
Perché le baby gang sono arrivate fin qui?
«Una delle cause è la crescita del fenomeno migratorio e l’arrivo di minori non accompagnati nel nostro Paese. Spesso questi giovani si aggregano tra loro creando gruppi di simili con la medesima appartenenza etnica».
Per quale motivo?
«I minori sono figli di seconda generazione. Sono qui senza una famiglia e vivono costantemente un conflitto: non si rispecchiano nella cultura originaria dei loro genitori, ma al tempo stesso non sentono neanche propria la cultura occidentale».
E quindi?
«E quindi il gruppo diventa un modo per affermare una nuova identità».
Cosa offre la gang?
«La gang offre l’opportunità di condividere con i propri simili dei valori. Permette di stabilire dei legami affettivi tra i membri. Attraverso il gruppo si ottengono tutti quelli elementi che dovrebbe esprimere la famiglia».
La violenza non è mai vista con sguardo critico?
«No. L’appartenenza al gruppo e la condivisione di certi valori permette anche di attivare un processo di deresponsabilizzazione».
Cosa manca a questi adolescenti?
«Non hanno speranza nel futuro. Si sentono non voluti e vorrebbero rivendicare i propri diritti personali. Vorrebbero semplicemente giustizia. Così l’adolescenza diventa il loro presente e l’unico mondo possibile. Il gruppo li rifornisce di quei valori e affetti mancanti».
Il nostro sistema di accoglienza ha fallito?
«Non ha fallito, ma è purtroppo soverchiato. La crescita esponenziale dei numeri migratori ha reso difficile fronteggiare in maniera efficace certe situazioni».
C’è margine per augurarsi che si plachino i fenomeni di disagio giovanile?
«Quando, se, terminerà la crisi economica del nostro Paese, si inizierà a credere di più nel futuro. Dei problemi giovanili se ne parla sempre più e gli adolescenti non sono più semplici sconosciuti. Conoscendo e capendo i loro problemi, anche i genitori potranno recuperare un ruolo di guida».
Baby gang, la nostra vox populi
«Welfare ai margini»
Federica Costanzo
39 anni, impiegata
«Penso che si debba parlare prima di tutto di responsabilità collettiva. In gruppo si agisce secondo modalità diverse e ci si sente legittimati a compiere certe azioni. La soluzione al fenomeno della criminalità giovanile si dovrebbe invece attuare sviluppando strumenti sociali idonei, come ad esempio nuovi luoghi di aggregazione per includerli più facilmente nella società. La politica si dovrebbe far carico di certi interventi senza relegare sempre il welfare ai margini dell’agenda».
«Specchio del disagio»
Matteo Maione
21 anni, barman
«Il fenomeno delle baby gang è lo specchio di un problema più profondo ed intrinseco. Ciò che manca veramente è un processo d’integrazione. Nessuno vuole legittimare chi delinque, ma spesso questi soggetti sono mossi dalla disperazione. S’innesca sempre più spesso un cortocircuito di cui sono probabilmente responsabili la scuola, la famiglia e anche lo Stato. Gli strumenti esistono ed io per primo ho partecipato ad alcuni progetti nelle scuole. Credo, però, che vadano potenziati».
«Torniamo al rispetto»
Michele Kazarian
30 anni, sales account
«La devianza giovanile è frutto di un problema culturale. Si registrano sempre più carenze a livello educativo che partono dalla scuola dell’infanzia e si ripercuotono sul processo di crescita. Di tutto ciò sono responsabili anche le famiglie: non insegnano più il rispetto per gli insegnanti e proteggono troppo i loro ragazzi. Così facendo, le istituzioni perdono potere e non sono più in grado di fornire ai più giovani quelle prospettive fondamentali per tenerli lontani dall’illegalità».
«La famiglia dov’è?»
Nicolo Cristiano
38 anni, insegnante
«Il problema va fatto risalire in prima battuta alla società in cui viviamo: è violenta ed ignorante. Chi dovrebbe però proteggere i più giovani da questo contesto? La famiglia, che purtroppo ha perso quel ruolo istituzionale e di guida. Non riesce più a trasmettere quei valori educativi necessari alla crescita dei propri figli. Di conseguenza questi si espongono più facilmente a ciò che trovano fuori, compresa quell’ondata di violenza che può diventare anche il loro metodo di espressione».
«Più senso civico»
Giuseppe Vicari
67 anni, pensionato
«Certi fenomeni sono il risvolto di un problema culturale. Bisognerebbe tornare ad intervenire nelle scuole revisionando i metodi di insegnamento. Alcune materie andrebbero reintrodotte. Manca sempre più il rispetto verso il prossimo e lo vediamo nelle azioni quotidiane. Gente che non rispetta i segnali per strada, biciclette che corrono sui marciapiedi. Sarà pur un discorso da vecchio, ma ci vorrebbe più senso civico. Le famiglie dovrebbero essere in prima fila nella diffusione di questo valore».
«Import culturale»
Sauro Raverelli
56 anni, elettricista
«Se le famiglie fossero più presenti, certi fenomeni non si verificherebbero. Quando si seguono i propri figli, si evita di farli deviare verso certe strade. Se li si lascia a se stessi, non c’è da stupirsi di certe cose. Credo poi sia un problema culturale, per meglio dire di… altre culture. Le baby gang non esistevano fino a qualche tempo fa qui: sono state importate dalle nuove culture che si sono stabilite nel nostro Paese. Perciò credo che sia doveroso che queste si adeguino al nostro sistema».
«Sostegno psicologico»
Domenico Sannino
47 anni, imprenditore
«Bisogna fare un’attenta riflessione sul fenomeno ed esaminare caso per caso. Questi minori non vengono spesso curati dalla famiglia, purtroppo anche il sistema scolastico è carente. Proprio nelle scuole bisognerebbe sviluppare programmi di integrazione ed offrire anche un supporto psicologico. Solo così sarà possibile capire i bisogni latenti ed intervenire in maniera adeguata. Bisogna agire prima che sia troppo tardi: è necessaria un’azione preventiva».
«Offrire prospettive»
Sara Sobolecsla
33 anni, contabile
«C’è la necessità di integrare sempre più i giovani partendo proprio dall’offerta formativa. Ad esempio, la possibilità di fare più corsi potrebbe aprire loro diverse prospettive. Così facendo, maturerebbero anche più speranza nel futuro. Quando la famiglia non può farsi carico di questo processo integrativo, la scuola, lo Stato o qualunque ente di tutela dei minori dovrebbe sopperire alle mancanze. Se offriamo un futuro solido ai giovani, difficilmente cadranno nell’illegalità».