1.000 Mi-Tomorrow, Carlo Cracco: «Non mi vedo più lontano da qui»

carlo cracco sos villaggi dei bambini
carlo cracco

«Milano è un’isola felice»; Carlo Cracco si immedesima ormai in Milano. Anche perché non si vedrebbe altrove. Qui ha accresciuto e poi consolidato la sua popolarità, fino ad aprire il suo ristorante nel cuore della Galleria Vittorio Emanuele II, cui si aggiungono oggi altri due locali più “easy” in via Meda (Carlo e Camilla in Segheria) e nella storica sede di via Victor Hugo (Carlo e Camilla in Duomo). «Se ci credi, questa città ti segue», racconta alla Mi-Tomorrow Spring School.

Come ha visto cambiare Milano?
«Negli anni Ottanta l’economia girava come una giostra, tutto era un po’ diverso. Poi con Tangentopoli si è passati dalle stelle alle stalle. Il clima si fece pesante, io me ne andai in Francia per fare un’esperienza, ma quello che mi è rimasto sempre dentro è che a Milano ci sono opportunità. Nel bene e nel male, fa parte del dna della città».

Perché?
«C’è sempre una carica. Nel 2000, quando tornai, si respirava un clima di apertura e innovazione. Ora tutti sono a Milano perché questa città ti permette di fare cose che altrove sarebbero più difficile fare».

Come ha gestito la concorrenza nel tempo?
«La concorrenza esiste da sempre, ma ti permette di fare meglio. Quello che premia non è andare dove tira il vento o dove vanno meglio le cose. Devi sempre alzare il livello, anche per costringere gli altri a pedalare».

Lei pedala sempre?
«Tre volte più veloce, gli altri mi devono stare dietro: chi non si mette al passo o improvvisa, non resiste. Lo stress cerco sempre di farlo venire agli altri».

Percepisce in modo diverso le aspettative della clientela?
«Il gusto dei milanesi cambia in base a quello che gli offri. Gualtiero Marchesi cambiò le cose: negli anni Ottanta andava di moda ancora la pasta con panna, prosciutto e piselli, i piatti erano abbondanti (circa 120 grammi di pasta), golosi. Lui tolse tutto e propose porzioni da 20 grammi, letteralmente tre maccheroni per capire tutto il piatto».

E la gente?
«Si arrabbiava perché usciva dal ristorante e andava a mangiare una pizza».

Un gesto estremo…
«Esagerato, ma lui lo fece per creare una frattura fra la cucina di ieri e quella che oggi conosciamo».

La tradizione risotto e cotoletta resiste sempre?
«Sono irrinunciabili, rappresentano il timbro della città».

Ma solo un punto di partenza…
«Tutto dipende da che tipo di lavoro vuoi fare, anche a New York la pizza con l’ananas è tradizione. Bisogna adeguarsi a quello che trovi in ogni Paese per poter offrire il meglio. Nel luogo in cui cucini hai tutta l’originalità di quello che mangi. C’è una tradizione che bisogna osservare: non la devi chiudere, ma aprire».

Quale è la sua idea di cucina?
«Aperta, che si mescola. ladyx.ch La gente deve capire cosa mangia, e soprattutto ricordarselo. La riconoscibilità nel nostro settore è fondamentale».

Sente addosso il binomio Cracco-Milano?
«Non mi vedo altrove, magari in Sardegna… Qui la gente viene per provare i ristoranti, perché viene da Cracco. Il turismo è fortemente orientato all’offerta gastronomica, Milano merita una visita anche solo per poter mangiare bene».

Ha in mente di lavorare su un prodotto della tradizione?
«Il panettone nel corso della sua storia si è trasformato in un prodotto industriale perdendo la qualità che lo caratterizzava. I grandi pasticceri lo hanno poi rivisitato, trasformandolo nuovamente in un prodotto di eccellenza. Un lavoro simile vorremmo fare noi con il “Pan Meino”, il dolce dei fornai milanesi».


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