Lo chef Claudio Sadler, il suo Ambrogino e l’avviso ai giovani: «Siate umili»

Claudio Sadler
Claudio Sadler

Oltre quarant’anni fa è partito dalla nativa Sesto San Giovanni alla conquista di Milano e poi del mondo. Claudio Sadler, dopo tanti riconoscimenti prestigiosi, riceverà l’Ambrogino d’Oro, un tributo della città in cui ancora oggi lavora: a Mi-Tomorrow il celebre chef e imprenditore racconta la sua vita professionale e come si prepara alla cerimonia del Teatro Dal Verme.

Partiamo dall’inizio della carriera: ha dovuto fare la gavetta?

«Certo che l’ho fatta, è stata dura, complicata. A sedici anni ho iniziato a girare il mondo, da subito ho conosciuto gli chef. Ho fatto molta fatica, ma devo dire che mi sono anche molto divertito».

Quali sono stati suoi maestri?

«Premesso che la scuola dell’Alberghiero è stata il mio punto di partenza, lo chef che mi ha stimolato di più è stato Giuseppe Ruga, che ora non c’è più. Mi ha fatto capire la figura dello chef, era uno che andava da solo a prendere le comande».

Chi altro?
«Poi ricordo Vidini, un uomo molto duro che mi ha insegnato l’organizzazione, e Georges Cogny chef stellato piacentino che mi ha fatto capire cosa significa essere creativo. Altro grande riferimento è stato Gualtiero Marchesi, con il quale ho capito l’importanza della classicità, il senso della cultura e dell’arte nel nostro mestiere».

Tutti personaggi che non erano star famose come lo sono oggi…

«Fino ai 22-23 anni io sapevo poco di questo mondo, mi capitò allora di sfogliare una guida Michelin, allora non c’erano le 3 stelle in Italia, al massimo due. Mi sono detto: voglio provare ad averne una o due, un altro obiettivo che mi sono dato da subito è stato avere un ristorante tutto mio».

Quando ha pensato di avercela fatta?

«Non penso di averlo mai detto, il lavoro va sempre avanti. Ho fatto tante cose, ho ottenuto due stelle dalla Guida Michelin, tanti riconoscimenti, ma la cosa importante è avere sempre energia, volere fare altre cose».

Com’è il suo rapporto con Milano?

«E’ una città importante per me, mi ha dato da vivere, in questi ultimi 3-4 anni è cambiata tanto, continua a dare stimoli e lavoro. Ciò che ho fatto qui non avrei potuto farlo a Sesto mia città natale, però anche lì dal sindaco ho avuto il riconoscimento del Lingottino d’Oro e del Premio Torretta, una sorta di Ambrogino d’oro della mia città».

E con Sesto?

«E’ dove è cresciuta mia figlia, continuo a viverci tranne la domenica, giorno in cui preferisco rifugiarmi nella mia casa sul lago Maggiore».

Ha lavorato e fondato molti ristoranti all’estero, si sente un ambasciatore della cultura italiana?

«Sì, soprattutto dopo quello che è successo in Giappone, dove ho avuto un ristorante del 2003 al 2008. In quel periodo si stava diffondendo la cucina molecolare spagnola dalla quale anch’io sono stato un po’ tentato. I giapponesi allora mi hanno detto: “Tu sei italiano, non ti riconosciamo”. Da allora sono rimasto sempre legato alla tradizione».

Nella carriera ci sono state anche piccole cadute, come la cancellazione della seconda stella dalla Guida Michelin. Che cosa vuol dire per uno chef?

«E’ una cosa che mi è dispiaciuta, avevamo fatto degli errori e ne abbiamo pagato le conseguenze. Un altro dispiacere è stata la chiusura del ristorante di Tokio nel 2008, era cambiata la politica e abbiamo dovuto dire arrivederci: ci ho versato su qualche lacrima».

Tanti giovani sono attratti dal mondo degli chef: cosa consiglia?

«Di essere umili, di capire che questo non è un lavoro che si fa in televisione anche se devo riconoscere che questo mezzo ha cambiato le sorti della ristorazione».

C’è molto da sudare?

«Bisogna studiare e lavorare tanto per potere dire di essere uno chef, non basta di certo stare due anni in una cucina, come pensa qualcuno».

Cosa rappresenta il conferimento dell’Ambrogino?

«Sono emozionato e orgoglioso: dopo 35 anni di vita e lavoro a Milano ricevo un riconoscimento che mi rende molto felice, è la più grande onorificenza ricevuta da me».


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