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20. 04. 2024 07:18

A Milano c’è un Tempio del Futuro Perduto: «Serve gentilezza al nostro muro»

Coperte, sacchi a pelo, vestiti pesanti: è l’appello dei ragazzi del Tempio del Futuro Perduto, realtà sempre più di riferimento a La Fabbrica del Vapore. Mariangela Vitale: «Siamo il tramite di momenti emotivamente forti»

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«Il muro delle gentilezza ha bisogno di indumenti invernali, coperte e sacchi a pelo». Questo è l’appello lanciato dai ragazzi del Tempio del Futuro Perduto, che quasi due anni fa hanno inaugurato una parete dove vengono appesi vestiti usati per chi ne ha bisogno.

Da gennaio 2020 a oggi sono stati raccolti e distribuiti 25mila chili di indumenti, letti e materassi, coperte e sacchi a pelo, passeggini, pannolini, mascherine chirurgiche, giochi per bambini, migliaia di libri, e tantissimi altri beni. «Il muro è sempre attivo, ci trovate per consegnare i vostri doni dal lunedì al venerdì dalle 10.30 alle 19.30», prosegue l’appello sulla pagina Facebook.

Ma cos’è il Tempio del Futuro Perduto? Si trova in via Luigi Nono 9 a Milano, in uno stabile adiacente alla Fabbrica del Vapore che dopo anni di abbandono, nel 2018 fu occupato da un gruppo di ragazzi intenzionati a ristrutturarlo e a trasformarlo in un centro culturale rivolto ai giovani, impostato sulla solidarietà fra artisti e nei confronti della cittadinanza. Al momento uno dei fondatori, Tommaso Dapri, è sotto processo per occupazione. Abbiamo chiesto a Mariangela Vitale, segretaria di Nuovo Rinascimento, associazione che coordina i progetti, di parlarci del Tempio.

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Alla scoperta del Tempio del Futuro Perduto

Perché questo nome?
«Nasce in un luogo abbandonato, al quale si voleva ridare un’anima, da qui l’idea del tempio. La parola “futuro” deriva dal fatto che ci rivolgiamo principalmente ai giovani. Abbiamo aggiunto “perduto” perché se non saremo noi giovani creativi a costruire le condizioni per avere un futuro, questo sarà perduto».

A che punto siete con la legalizzazione del Tempio?
«Abbiamo sempre voluto tenere aperto un dialogo con il Comune: desideriamo essere accolti e intendiamo lavorare insieme per trovare una soluzione. Durante il lockdown le comunicazioni si sono interrotte per ovvie ragioni. Sono poi riprese prima delle Amministrative. Abbiamo ospitato il confronto fra alcuni candidati per avvicinare i giovani alla politica e per parlare del nostro settore, duramente colpito dalla crisi: la cultura. Vogliamo essere legalizzati, cosa che permetterebbe anche ad altre realtà come la nostra di svilupparsi. Ciò potrebbe avvenire attraverso una co-gestione del Tempio con il Comune. È stato lanciato un avviso di interesse, al quale può seguire un bando, ma al momento siamo in attesa. Si tratta di uno spazio molto grande che necessita di importanti lavori di manutenzione. Noi in parte li abbiamo fatti, ma non bastano».

In quanti siete e di cosa vi occupate?
«Il nucleo più forte è formato da una ventina di ragazzi, ma a seconda dei progetti in alcuni momenti raggiungiamo i cinquanta elementi. C’è chi, come me, si occupa della gestione vera e propria del centro, alcuni si dedicano alle arti performative, altri al teatro (con la Dogma Theatre Company, ndr) e chi alla musica. Per una o due settimane diamo gratuitamente lo spazio agli artisti, che poi mettono in scena i loro spettacoli, ai quali si può accedere a offerta libera. Gli incassi degli eventi vengono reinvestiti nella riqualificazione della struttura e nell’attivazione di altre iniziative culturali e solidali, dalle mostre ai concerti, dal mercatino fino al Muro della gentilezza».

Com’è nato il muro?
«Tutti i nostri eventi hanno sempre avuto uno sfondo solidale: chi entrava al Tempio portava in dono un libro o un indumento. Nel gennaio 2020 a Tommaso Dapri è venuto in mente di attrezzare una parete con vestiti e scarpe, riprendendo ciò che avveniva già in altre città italiane e internazionali. La differenza è che noi abbiamo un sistema organizzato: invece di lasciare che semplicemente le persone appendano i vestiti, chiediamo loro di entrare a lasciarceli, così possiamo smistarli e conservarli nel nostro magazzino. Così, chi ne ha bisogno prende ciò che gli serve direttamente dalla parete oppure entra a chiedere. In questo modo non si crea degrado intorno al muro e ciò che riceviamo in eccedenza (gli indumenti femminili sono sempre molti di più di quelli maschili) lo diamo all’organizzazione umanitaria Humana. Inoltre non abbiamo un registro per distribuire le risorse: non c’è un limite agli indumenti che possiamo dare al singolo e questo permette alle persone di avvicinarsi senza timore».

Qual è il loro l’identikit?
«Sono persone che vivono in strada da anni o che stanno subendo una crisi lavorativa. Con la pandemia sono arrivate anche famiglie impoverite. Abbiamo chiesto supporto alla rete Milano Aiuta: i loro assistenti sociali ci danno indicazioni su come gestire particolari situazioni di disagio».

Chi sono le persone che donano?
«Dal ragazzo all’anziano, c’è chi viene anche da fuori Milano. Si tratta di un progetto partecipativo: noi mettiamo a disposizione il nostro tempo, ma sono i singoli cittadini che agiscono».

Le due “parti” si incontrano?
«Quando capita si creano momenti emotivamente forti. È bello che chi dona abbia possibilità di vedere cosa facciamo in concreto».

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