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29. 03. 2024 11:01

Milano in campo per le donne verso il 25 novembre: l’appello di nove giornaliste di Mi-Tomorrow

Ma come si fa a non “isolare” il 25 novembre come data unica in cui accendere una spia d’emergenza?

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Quando nel 1999 l’Onu ha fissato il 25 novembre per la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le Donne si poteva immaginare che con il passare degli anni la scomparsa, o quantomeno l’attuazione del fenomeno, avrebbe resa superato questo appuntamento.

Violenza contro le donne, cosa dicono le statistiche

Quella speranza è stata vana, le statistiche dicono che le donne continuano a essere vittime di aggressioni e intimidazioni anche plateali, com’è accaduto durante lo scorso Capodanno nel centro di Milano. Se guardiamo le denunce per violenza in città, che rappresentano solo una parte di questa realtà, osserviamo che nel 2021 sono cresciute di 300 rispetto all’anno precedente mentre quelle per stalking di ben 400.

Alla luce di questi dati è più che mai opportuno rilanciare l’impegno. Tra le iniziative messe in campo quest’anno va ricordata la seconda edizione dell’Open week della fondazione Onda fino al 26 novembre: attraverso gli ospedali con i Bollini Rosa e i centri antiviolenza che prenderanno parte all’iniziativa, saranno offerti gratuitamente servizi clinici e informativi, in presenza e a distanza, consulenze e colloqui. Sono previsti anche molti incontri, tra cui “direNo Molestie nei luoghi di lavoro” che si tiene domani all’Auditorium Acquario civico. Il Comune ha organizzato per il 25, nelle sedi anagrafiche, la presenza di Bibliopoint che proporranno una selezione di libri e audiovisivi dedicati al tema.

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Violenza contro le donne, il nostro appello

Grande impegno anche dei Municipi: al 3 in via Pacini la panchina colorata verrà scoperta proprio il 25 novembre mentre all’1, nello stesso giorno, è previsto un laboratorio al Cam Scaldasole incentrato sul tema del consenso. Tutti i Municipi saranno uniti venerdì da una marcia che sarà percorsa alle 16.00, in luoghi diversi della città, dedicata in particolare alle donne iraniane. Con la speranza di vedere in piazza tanti uomini, come sta accadendo da due mesi nel Paese di Mahsa Amini. Ecco, intanto, come le giornaliste di Mi-Tomorrow hanno voluto raccontare il loro 25 novembre: nove testimonianze per un unico, grande appello.

Violenza contro le donne, le giornaliste di Mi-Tomorrow rispondono

 

Fallocrazia
di Benedetta Borsani

Il 25 novembre è il giorno della resa. Sì. Della resa. Inutile combattere. Inutile indignarsi. Inutile tutto. Il 25 novembre la giornata internazionale per l’eliminazione contro la violenza sulle donne. L’8 marzo la giornata mondiale delle donne, anch’essa nata su una tragedia. E l’elenco è lungo. Quote rosa, nella politica, nei consigli di amministrazione; tante femministe fanno pure spallucce e le definiscono strumento criticabile, ma necessario. Necessario! Imporre la A di genere nella lingua italiana, storpiandola. Persino un neologismo, femminicidio, coniato per cristallizzare un reato (omicidio non basta?). Corsi di difesa femminile che si moltiplicano come funghi. Parità sul lavoro e di salario che ancora guardiamo con il binocolo pur vivendo nell’Italia della Costituzione “più bella del mondo”. Quella dell’Art.1, “fondata sul lavoro”. Ed eccoci al bandolo della matassa: siamo certi che il lavoro sia un diritto e non uno strumento che ci rende libere, liberi? Se fosse retribuito nel modo giusto, equo, non per parità di genere bensì di ruolo, aiuterebbe le donne concretamente garantendo loro l’indipendenza economica e quindi, se necessaria, la fuga da chi ha tradito la loro fiducia prima che accada l’irreparabile. E questo è un fatto, non una considerazione. Empowerment femminile… All’alba dei miei 50 anni sono sfiduciata, certa che tra un anno saremo ancora qui a parlarne.

Quando Ursula rimase sola
di Paola Bulbarelli

Invisibili? Lo siamo state per molto tempo. E oggi? Ancora troppe donne lo sono. Nonostante siano diverse quelle arrivate ai vertici, tante non hanno voce, non riuscendo a urlare la loro sottomissione. Non c’è differenza di ceto o di ruolo. Ce lo ha dimostrato Ursula Von der Leyen che ha rivendicato la nostra dignità in quanto prima donna eletta presidente della Commissione europea, di fatto presidente di una “repubblica” da 400 milioni di persone e 27 stati membri sovrani. Un passo fondamentale verso la conquista della parità. Eppure… Eppure nel 2021 è stata, si fa per dire, ricevuta da Erdogan, presidente della Turchia. Lei e un imbarazzante Charles Michel, presidente del Consiglio europeo. Solo due le sedie nel grande salone, momento d’imbarazzo planetario grazie a una telecamera globale. E Von der Leyen, impietrita, che si accomoda su un divanetto in disparte. «Mi sono sentita ferita e lasciata sola: come donna e come europea – dirà in seguito –. Non si tratta di disposizione dei posti o del protocollo. Questo problema va al centro di ciò che siamo. E questo mostra fino a che punto dobbiamo ancora spingerci prima che le donne siano trattate alla pari». Il cammino è ancora lungo, ogni giorno. Non solo il 25 novembre.

Care donne, il mondo ci odia (ancora)
di Lavinia Caradonna

Per chi si occupa di femminismo, il 2022 è stato un anno difficile. Della guerra in corso in Ucraina non ci arrivano che gli echi geopolitici, nulla sugli stupri e delle torture che le cittadine dei territori occupati sono state (e sono) costrette a subire. Negli USA è stato a tutti gli effetti cancellato il diritto all’aborto. La UE denuncia il gap salariale per cui il risultato è come se le donne lavorassero gratis due mesi ogni anno. In Italia ogni due ore viene denunciata una violenza sessuale perpetrata da partner (63%), amici (10%) e parenti (4%), ma solo l’1% dei fondi stanziati per i centri antiviolenza è stato erogato. Per non parlare del vuoto sugli strumenti a sostegno delle donne anziane, spesso sole e dipendenti da mariti violenti, vittime di aggressioni fisiche e psicologiche. E, in ultimo, non dimentichiamo la nostra lingua, che continuiamo a non rendere inclusiva difendendo meccanismi nati e sviluppatisi in funzione di un preciso quadro socioculturale: quello in cui le donne non c’erano.

Una questione di lessico
di Mariella Caruso

La “violenza” contro le donne si annida anche nel lessico. E tutti, senza rendercene conto, possiamo diventare colpevoli. I retaggi patriarcali sono una costante nel lessico corrente. Un esempio su tutti? L’uomo che per esaltare la forza di una donna la dipinge lessicalmente come una “con le palle”. Questo perché il termine di paragone più usato per la forza risiede ancora nella virilità. Ma la cosa peggiore è che spesso chi usa questa definizione non si rende conto del maschilismo e della violenza lessicale. La controprova l’ho avuta qualche sera fa. Tornando a casa in taxi, il tassista parlando di sua moglie l’ha descritta come «una donna con le palle». L’ho bloccato e gli ho chiesto perché pensasse fosse giusto. È venuto fuori che non aveva mai riflettuto sul maschilismo di quell’espressione. Allo stesso modo, qualche minuto dopo, si è definito «mammo», un’altra espressione profondamente sbagliata e maschilista perché implica che debbano essere le madri a doversi prendere cura dei figli. Credo che la lotta contro la violenza debba passare anche dall’educazione lessicale.

cascina ri-nascita

Dall’arte, la forza del simbolo
di Chiara Corridori

Nella lotta contro la violenza sulle donne, l’arte ha un suo ruolo ben chiaro. Penso che l’artista messicana Elina Chauvet abbia molta ragione nell’affermarlo. Lei è l’autrice del progetto d’arte partecipativa Zapatos Rojos (Scarpette Rosse), realizzato per la prima volta nel 2009 a Ciudad Juárez, a nord del Messico, dove, a partire dal 1993, centinaia di ragazze sono state rapite, stuprate e uccise. Il suo esercito di scarpe color scarlatto, replicato con centinaia di riedizioni nel mondo, è diventato il simbolo più diffuso della lotta al femminicidio. Da tennis, col tacco, senza. Infradito, sandali, ballerine. Stanno lì sull’asfalto di una piazza, di una strada, su una scalinata. La loro forza più grande è rappresentare la presenza nell’assenza. Le donne che indossavano quelle scarpe non ci sono più. Il colore evoca il sangue del delitto che le ha cancellate. Ma il rosso è anche energia, forza di opporsi, di reagire e dire basta. L’arte ha trasformato scarpe comuni in un esercito silenzioso, portatore di un messaggio universale che non ha bisogno di traduzioni.

Donna, vita, libertà
di Katia Del Savio

Jin, jiyan, azadi: donna, vita, libertà. Abbiamo imparato a conoscere questo slogan curdo dalle donne iraniane che, con un coraggio che da questa parte del mondo fatichiamo a realizzare, utilizzano durante le proteste partite dopo la morte di Mahsa Amini, la giovane arrestata dalla polizia morale di Tehran per non aver portato correttamente l’hijab. Quelle stesse donne hanno rischiato e, in tanti casi, perso la vita durante le manifestazioni. È accaduto persino a Diana Mahmoudi, 8 anni. Il movimento, rafforzato da gesti simbolici come il taglio dei capelli, si è allargato creando uno tsunami in diverse parti del mondo, un po’ come, con le dovute differenze, è avvenuto con il #MeToo. Se in alcuni regimi autoritari il patriarcato è sancito per legge, da noi si esprime in maniera più subdola e le violenze sulle donne riguardano tutti i ceti sociali, praticate da uomini in apparenza molto diversi fra loro. Anche le donne che si mettono insieme per ribellarsi sono molto diverse fra loro, ma la forza dell’unione può fare la differenza. Jin, jiyan, azadi.

Una nuova, coraggiosa forma
di Barbara Giglioli

La violenza scivola, vischiosa, nera,
subdola come chi alza il cappuccio e nasconde occhi e intenzioni.
Non è sempre manifesta, forte, chiassosa.
In quei casi è facile riconoscerla, difficile lavarla dall’anima.
Ma quando è celata, la lotta più complicata è darle un nome.
Violenza. Detto ad alta voce.
Violenza anche se non ti picchia,
violenza anche se non si infila nel tuo letto.
C’è quella sottile, come il foglio di carta, il suo taglio.
Brucia.
Violenza è se ti fa sentire inadeguata, sporca.
Violenza è se pensa che i tuoi abiti possano innescare pensieri.
E rimbombano. Pesanti.
Violenza è pensare di aver il diritto di giudicare la scelta di essere o non essere casa.
Violenza è seguire una linea del tempo, contare il tempo, martellare la tua pelle con quel ticchettio.
Sempre nello stesso punto. Ripetuto, ritmato, buio.
E allora bisogna accendere la luce, far scappare le ombre ed evidenziare con la tinta della consapevolezza tutte le nostre sfumature.
Righe di racconto che possiamo scrivere solo noi, con il nostro inchiostro.
Definizione dei nostri nei e di quelle imperfezioni che diventano perfette nell’economia di una nuova coraggiosa forma.

Quelle colpe che abbiamo anche noi
di Manuela Sicuro

Mimì cantava: «Gli uomini non cambiano… Ho lottato per cambiarlo, ci vorrebbe un’altra vita». Il 25 novembre si avvicina e siamo qui ancora a raccontare di tutto quello che non accenna a cambiare. Non cambiano alcuni uomini e non cambiano nemmeno alcune donne. Una situazione complicata che spesso viene raccontata male dai mezzi di comunicazione. Da noi. Facciamo ancora fatica a raccontare le donne in vita, figurarsi al momento della morte. I dati nel nostro Paese continuano a pesare come macigni mai domi. In Italia muore una donna ogni tre giorni. Poi i giorni passano, gli appelli passano, l’indifferenza resta. Non possiamo, non dobbiamo abituarci a questi numeri. Non è la normalità. Inasprire le pene dopo la denuncia? Sì. Ma soprattutto far capire a chi è vittima di violenza che l’omertà non è mai la strada da percorrere. Basta il primo schiaffo. È più che sufficiente il primo abuso psicologico subito. Questo è il cambiamento. E abbiamo il dovere di perseguirlo.

Uomini che lasciano soli altri uomini
di Milena Sicuro

Tra i recenti casi di cronaca c’è quello di Anastasiia Alashri, 23enne ucraina arrivata nel nostro Paese lo scorso marzo, per scappare da Kiev e dall’invasione russa. Aveva trovato lavoro in un ristorante di Fano, nelle Marche, come cameriera. Tre coltellate hanno posto la parola fine alle speranze di una nuova vita. E a firmare questa sentenza di morte è stato il compagno 42enne, con doppia cittadinanza egiziana ed ucraina, che non accettava la separazione e che la donna avesse portato via con sé il figlio. Per sfuggire alle pressioni alle quali la sottoponeva l’ex marito, dopo una serie di denunce, Anastasiia aveva trovato rifugio da un amico, dando una nuova casa al figlio di due anni. Dopo la morte della donna, il bimbo è rimasto solo, sfollato di guerra, senza parenti e senza un reale perché. Oggi, di lui, se ne stanno occupando i servizi sociali del Comune, mentre l’uomo è stato bloccato in pieno tentativo di fuga dal Paese, presso la stazione ferroviaria di Bologna. L’ennesimo autore di femminicidio, questa volta, porta il peso di aver lasciato solo un – futuro – uomo. E quanti come lui si aggiungeranno alla (già) lunga lista nelle pagine di cronaca, è un dato tanto triste quanto certo.

 

Violenza contro le donne, cosa dicono i numeri

210
Le donne uccise a Milano dal 2000 al 2021

1.624
le donne che sono entrate in contatto con i centri antiviolenza di Milano nel 2021

1.447
le donne “prese in carico” dai centri antiviolenza di Milano nel 2021

35,9%
la percentuale di donne prese in carico dai centri antiviolenza della Lombardia che afferma di aver subito prevalentemente violenze di natura psicologica

Fonte: Regione Lombardia/Policlinico

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