Quanto durerà il coronavirus? Lorenzo Mantovani: «Impossibile fare previsioni»

Mantovani (Bicocca): «Il virus è troppo giovane, non sappiamo ancora come si comporterà»

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Quanto durerà il coronavirus? L’emergenza coronavirus non allenta la presa sull’Italia e, in particolare, sulla Lombardia che detiene ancora il record nazionale di contagi e decessi. Le scuole restano chiuse, chi può lavora da casa, ma il Duomo di Milano e i musei sono stati riaperti, con molte prescrizioni. «Sapremo nei prossimi giorni se il picco sia stato raggiunto», fa sapere a Mi-Tomorrow Lorenzo Mantovani, docente di Economia sanitaria all’università Milano-Bicocca.

 

Quanto durerà il coronavirus? Risponde Lorenzo Mantovani

I casi di guarigione sono in aumento, questo in prospettiva cosa significa?
«Si tratta di un nota certamente positiva».

I protocolli finora messi in atto stanno funzionando?
«Come ha affermato Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, questo lo sapremo solo fra qualche giorno».

Alcuni casi sono arrivati al Sud, persone andate via da Codogno in piena emergenza. Qualcosa in questo caso non ha funzionato?
«Va sottolineato che stime credibili indicano come probabilmente il virus circolava da prima di quanto credessimo, da prima di quando l’abbiamo scoperto. Anche perché spesso si confonde con una normale influenza, il cui picco epidemiologico ha coinciso con l’arrivo del Covis-19, rendendone l’identificazione difficile. Non è un caso che sia stata una polmonite atipica a far identificare il cosiddetto paziente 1».

Perché rispetto ad altri Paesi europei l’Italia conta più contagi e più decessi?
«Quanto ai decessi, in molti pazienti il virus sembra aver esacerbato condizioni croniche pre-esistenti. Si è discusso molto sul fattore età, che però entra in gioco solo indirettamente con l’aumento della prevalenza di malattie croniche, spesso più di una. Quanto ai contagi, credo che la sorveglianza attiva che le nostre autorità hanno messo in campo sia uno dei fattori che contribuisce a spiegare il fenomeno».

Molte attività stanno riaprendo, per contenere i danni economici. Dal punto di vista della salute, secondo lei è una scelta giusta?
«Purtroppo ci siamo trovati ad affrontare un agente patogeno nuovo, e quindi sconosciuto, dovendo prendere decisioni in condizioni di incertezza. Si tratta di un problema di salute che ha anche un impatto notevole sull’economia.

Ed è difficile separare salute ed economia. Un calo dell’uno per cento del Pil corrisponderebbe a quasi 19 miliardi di euro, cioè quasi il 17 per cento del Fondo sanitario nazionale. Limitare il calo del Pil quanto più possibile significa investire in salute e in ricerca. Facile a dirsi, ma difficile in condizioni di emergenza».

Cosa succederà?
«E’ difficile se non impossibile fare previsioni serie e credibili ora. Abbiamo ancora troppo pochi dati. Dipende dall’efficacia delle misure prese per ridurre il rischio di contagio. Per ovvi motivi non disponiamo di un vaccino, quindi per bloccare la diffusione dobbiamo limitare il rischio di contagio da individuo a individuo».

Quando potremo contare su un vaccino?
«Le stime più credibili parlano di un circa anno per avere un vaccino sicuro ed efficace. Dipende da quanto collettivamente investiremo in ricerca».

Questo virus scomparirà in primavera con l’arrivo dei primi caldi?
«Non sappiamo ancora come si comporta, è troppo giovane. Potrebbe anche migrare altrove».

Questa situazione sta facendo emergere la carenza di medici e infermieri. E’ giusto richiamare i medici in pensione o assumere neolaureati?
«I servizi sanitari sono pianificati per rispondere ai bisogni di salute della popolazione, includendo un margine per le emergenze. Nel nostro Paese l’effetto congiunto del baby boom e del successivo calo demografico dagli anni ’70 in poi si riverbera anche sugli operatori sanitari, molti dei quali sono andati o stanno per andare in pensione.

Questo fenomeno era già noto. L’emergenza che stiamo vivendo sta esacerbando la situazione. In tempo di emergenza è giusto far ricorso a qualunque misura disponibile che possa alleviare il carico sul sistema sanitario ed aiuti a gestire i picchi di malattia».

Come sta funzionando in Lombardia la collaborazione fra sanità pubblica e privata?

«Sulla base delle dichiarazioni ufficiali, sta funzionando come dovrebbe funzionare. Dai miei punti di osservazione, che sono quelli di direttore di una scuola di specializzazione in Bicocca, una università pubblica, e di direttore di una unità complessa in una struttura sanitaria privata, Irccs Multimedica, posso confermare la piena collaborazione.

E non dimentichiamo la collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, che è fondamentale. Direi che ognuno sta facendo la sua parte, senza clamore, come è giusto in questi casi».

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