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25. 04. 2024 07:52

Enrico Ruggeri, nuovo romanzo e una canzone per Chico Forti: «Vedo che i milanesi cominciano a reagire»

Un romanzo storico, una canzone per Chico Forti: il solito, mai domo, Enrico Ruggeri torna con nuovi spunti. E le idee sempre molto chiare

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Enrico Ruggeri è uno di quegli artisti che non meriterebbe presentazioni, a fronte dei 35 album realizzati nella sua grande carriera, delle canzoni scritte che fanno parte della vita di ognuno di noi e dell’essere da sempre uno che non te le manda a dire. Ora torna con una nuova canzone. E un nuovo romanzo.

Enrico, il lockdown ti ha portato in dote l’ottavo romanzo, Un gioco da ragazzi, che racconta uno spaccato dell’Italia a cavallo degli anni Settanta.

«L’avevo in testa da un po’: volevo scrivere un romanzo storico attraverso il racconto di una famiglia e di un paese. Un uomo e una donna che si incontrano nel primo dopoguerra, la ricostruzione dell’Italia, gli anni ’60 con i mangia dischi, la musica beat, la prima televisione, insomma il grande benessere. I due si sposano e mettono al mondo tre figli, poi arriva quel tremendo spartiacque che fu il 12 dicembre 1969».

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Le bombe di piazza Fontana.

«Esatto. Lì si chiude per sempre una stagione divertente e avventurosa. Arrivano gli anni di piombo, i due figli maschi Mario e Vincenzo, che si trovano nel pieno dei licei milanesi dei primi anni ’70, prenderanno strade politiche opposte fino a diventare due terroristi, uno rosso e l’altro nero. Aurora, la sorella più piccola, cercherà disperatamente di tenere in piedi la famiglia e sarà l’unica a salvarsi grazie al suo lavoro in ambito musicale».

Hai iniziato giovanissimo a muovere i primi passi nella musica con i Josafat, proprio durante i periodi più folli della recente storia italiana. Cosa ti ha segnato di più?

«Quelle bombe di piazza Fontana sono state un trauma, peraltro c’era un bambino che finì tra le vittime e che si chiamava come me: era andato ad accompagnare il padre e perse una gamba. Erano anni terribili, io per mia fortuna scappavo in cantina con un po’ di amici e andavamo a suonare, ma non volevo diventare famoso. Si voleva diventare persone fiere di se stesse. Ero quello strano della seconda H che suonava, avevo questa micro popolarità nel mio liceo che mi collocava ai margini di quello che stava succedendo».

Non contento, nel secondo confinamento per il virus una serie di circostanze ti hanno portato a pubblicare L’America, un brano per Chico Forti. Una vicenda che, per alcuni versi, ha del grottesco.

«Io sono in studio perennemente a provare e registrare canzoni, dato che fare album potrebbe sembrare anacronistico. Tra le canzoni, c’era questa su Chico Forti. Succede che la situazione Forti si va a sbloccare, quindi ad un certo punto sento lo zio di Chico, Gianni, un uomo straordinario che da vent’anni sta combattendo questa battaglia con le unghie e con i denti. Gianni mi presenta un fumettista bravissimo che si chiama Massimo Chiodelli e che, a sua volta, mi fa conoscere un regista svedese che si chiama Thomas Salme, molto bravo».

Una serie di coincidenze “giuste”.

«Sì, visto che insieme decidiamo di far uscire questa canzone con questo video. Potrebbe essere un’altra piccola “spallata”, sebbene i tempi non siano più quelli di Bob Dylan con Hurricane. Ma il pezzo lo stanno ascoltando».

Hai scritto per due grandi artiste come Fiorella Mannoia e Loredana Berté. Chi credi che oggi potrebbe cantare qualcosa scritto da te?

«Va fatta una premessa: io ragiono sempre sul rapporto umano. Quando mi è capitato di collaborare con altri artisti, è successo che si facesse amicizia, poi musica insieme. Penso che una delle voci più belle in Italia sia Giorgia e mi sembra che non abbia ancora un repertorio all’altezza della sua voce».

Milano è sempre al centro del tuo mondo. Che città vedi, adesso?

«Nonostante la pandemia, vedo che la gente comincia a reagire. Uno studioso di costumi disse che le pandemie finiscono quando la gente decide che finisce, compresa la peste a Milano che fece un morto su quattro. Ad un certo punto la gente non ne ha potuto più e ha cominciato a conviverci finché la peste è sparita, quindi credo che anche in questo caso la fine della pandemia sarà quando la gente decederà che è finita. In tutto questo, Milano resta la città in cui quello che accade succede tre anni dopo nel resto dell’Italia. È la più europea, la più dinamica. È moda, si parlano tante lingue. È una città molto ospitale, però devi lavorare. Diciamo che ti premia se hai voglia di fare e ti punisce se sei un succhiaruote».

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