Simone Sangalli, il fotografo ritrova la sua Milano: “Lo scatto è terapeutico”

Simone Sangalli
Simone Sangalli

Un particolare, un gesto di un passante o un tramonto. Gli scatti di Simone Sangalli (@sangage78 su Instagram con più di 3.000 follower) raccontano tanti aspetti della quotidianità, grazie a punti di vista e modalità diverse, ma con particolari comuni: la decisione nelle linee e l’uso dei colori, il più delle volte così nitidi da regalare la morbidezza di un dipinto ad ogni foto. Un gusto delicato, dono di una sensibilità fuori dal comune.

Chi è Simone?
«Un quarantenne nato e cresciuto a Milano ma di sangue in parte romagnolo, un Milanese DOC ma non Imbruttito. Mi sono laureato in Economia alla Bocconi e ora mi occupo di software bancario come Business Analyst».

Come sei diventato fotografo?
«Fin da piccolo ho avuto una vena artistica latente. Ho scoperto però la fotografia piuttosto tardi con l’avvento dell’era digitale. Da qui un crescendo avido di letture, videotutorial e acquisti di attrezzatura più disparata. Fondamentalmente, sono sostanzialmente un autodidatta che si è concesso solo qualche workshop sulle pose da studio e sulla luce controllata».

La fotografia ha cambiato il modo in cui guardi il mondo?
«Tantissimo! Mi soffermo molto sui piccoli dettagli, gli angoli nascosti, i gesti naturali delle persone e soprattutto volgo lo guardo verso l’alto. Cosa che nelle grandi città si fa sempre meno perché siamo troppo concentrati, a testa bassa, sugli smartphone lungo le strade frenetiche».

Cosa rappresenta per te la fotografia in termini emotivi?
«Un rifugio ma anche una sfida con me stesso. Conforto e continuo stupore. Dopo anni che avevo smarrito voglia e creatività, la fine di una lunga relazione sentimentale mi ha dato la spinta per riprendere a scattare nuovamente e la fotografia mi ha aiutato molto a superare il difficile momento».

Definisci il tuo modo di fotografare.
«Uso esclusivamente una Reflex fullframe ed amo la post-produzione, purché non ecceda nel posticcio oppure sfoci in pura grafica. Ho sperimentato diversi generi fotografici: macro, paesaggistica, street e ritrattistica da studio ma forse quello che sento più mio è quello “Romantico-Urbano”. A tal riguardo un hashtag come #URBANROMANTIX lo trovo molto azzeccato. L’associazione con un titolo o caption mi permette, inoltre, di giocare con la fantasia e con i motivi musicali che mi risuonano nella testa».

Ci racconti il tuo concetto di inquadratura?
«Spesso mi basta uno sguardo veloce e l’immagine mi appare chiara ed efficacie nella mente. Provo a combinare il minimalismo con la bellezza del quotidiano che mi circonda. La purezza di linee e curve, come anche gli spazi negativi che mi piace associare ed elementi di disturbo, talvolta ironici, dolci quanto inattesi. Regola “aurea” o “dei terzi” a parte, dalle quali comunque non si può prescindere, ritengo che anche il formato dell’immagine abbia la sua importanza ed in questo senso il “quadrato”, così semplice, regolare e pratico lo trovo congeniale».

Lavori ancora in pellicola?
«Anni fa ho acquistato una Nikon F100 ed ho provato a cimentarmi con le pellicole Ilford bianco e nero. Non avendo però a disposizione una camera oscura, e demandando quindi la post-produzione ai laboratori, ritenevo che il processo creativo così dimezzato non facesse per me».

Per lo stile, ha fatto riferimento a quale grande fotografo mondiale?
«Elliot Erwitt in primis ed ovviamente Henri Cartier-Bresson. Poi tra i contemporanei direi Michael Kenna e Kai Ziehl».

Cosa pensi di Milano da cittadino?
«Beh che dire… è la mia città! L’ho riscoperta dopo anni in cui le sono stato distante e mi ha riabbracciato con un affetto che non credevo le fosse proprio».

In che senso?
«Sono stato per più di dieci anni pendolare per amore tra Milano e Verona. Quando sono rientrato in pianta stabile nella mia città, non mi ritrovavo più nella cupa Milano da Bere anni ’80 della mia infanzia, né tantomeno in quella selvaggia anni ’90-2000 della mia giovinezza».

Cosa hai trovato al loro posto?
«Qualcosa di nuovo, fresco ed intellettualmente stimolante, una Milano più bella. Certo noi milanesi riusciamo ad essere tremendamente snob ma dopotutto questa esuberanza e fantasia non sono poi così effimere. Proprio questo senso di appartenenza e di comunità fiera e multiculturale mi ha fatto dono di quell’affetto di cui avevo bisogno».

Il tuo luogo cult milanese?

«Ce ne sono molti, ma la Fondazione Prada è speciale».

mitomorrow.it