Dopo ormai 1 anno e 3 mesi un bilancio e un ragionamento su quello che viene definito “smartworking” non solo sono necessari ma anche doverosi.
In emergenza, il lavoro da casa (non smartworking, e questa è una prima, imprescindibile, precisazione) è stata una soluzione inevitabile e con aspetti assolutamente positivi, sia per contrastare la pandemia che per mantenere vivi economia, lavoro e redditi.
Andando avanti con il tempo però, a questa emergenza non è stata data la natura di cambiamento, con le correzioni e le misure conseguenti. È rimasto il telelavoro, in cui paradossalmente si lavora di più, con il disagio di stare sempre chiusi in casa e senza la libertà che invece presuppone il concetto di smartworking (che ricordiamolo, resta pur sempre l’ambito privilegio di chi fa un lavoro non “operativo” e non su turni).
Ma non solo, lavorare da casa è diventato persino penalizzante. Per esempio, se uno dei due genitori lavora da casa, non si ha diritto al bonus babysitter (chiaro, no? Sei a casa, il tuo capo ti chiede le stesse cose, se non di più, con gli stessi orari se non spesso e volentieri di più, ma che ci frega?).
Non solo, qui a Milano, si hanno parecchi punti in meno, per chi lavora da casa, nelle graduatorie dei centri estivi e per alcuni servizi educativi. L’ennesima prova di totale lontananza dalla realtà di un assessorato, quello alla pubblica istruzione, che per distacco è il peggiore, l’unico sotto la sufficienza (e qui ci fermiamo) dell’amministrazione milanese.
Come se fosse facile lavorare mentre nello stesso tempo si deve gestire uno o più figli, con situazioni al limite del tragicomico: rispondere a una mail urgente mentre si cambia un pannolino, mandare un progetto anch’esso urgente (sta diventando tutto così urgente) e controllare gli ultimi dettagli mentre la bimba o il bimbo piange.
Forse con il lavoro da casa (aboliamo il termine smartworking, per favore) ci vogliono far finalmente capire il significato della parola resilienza (altro termine da mandare al macero).