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24. 04. 2024 10:35

Contro i luoghi comuni: «Noi, ricercatrici e mamme: si può fare, anche in Italia»

Le dottoresse Bedoni e Gualerzi smentiscono alcuni luoghi comuni: «E’ ora di stimolare i giovani a restare in Italia»

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Marzia Bedoni e Alice Gualerzi sono rispettivamente responsabile scientifica e biologa ricercatrice del laboratorio di nanomedicina e biofotonica clinica (LABION) del Centro IRCCS “S. Maria Nascente” di Milano, Fondazione Don Gnocchi. A Mi-Tomorrow raccontano la loro esperienza.

Le ricercatrici Bedoni e Gualerzi: «È ora di stimolare i giovani a restare in Italia»

In cosa consiste il vostro lavoro?
Marzia Bedoni: «Ci occupiamo di nanotecnologie applicate alla medicina, studiamo i biomarcatori per il monitoraggio dei trattamenti farmacologici o riabilitativi svolti presso la rete dei nostri ospedali. Valutiamo gli effetti delle cure sui pazienti affetti da malattie neurodegenerative come Parkinson e SLA, o altre legate all’apparato respiratorio e cardiovascolare».
Alice Gualerzi: «Stiamo anche lavorando al progetto Nevermind in collaborazione con l’Università Statale, Bicocca, il San Raffaele e l’istituto clinico Humanitas per quanto riguarda la produzione di nanofarmaci per curare glioblastoma e l’Alzheimer».

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Com’è la vostra giornata tipo?
MB: «Avendo la responsabilità del laboratorio ho dovuto sottrarre tempo alla pratica per aspetti più gestionali, come la stesura di progetti e articoli, o curare le relazioni con gruppi di ricerca italiani e stranieri».
AG: «Io invece sono più legata all’attività pratica, ma ogni giorno è diverso: alcune volte sono in laboratorio, ad esempio quando arrivano nuovi campioni da processare. Poi c’è il tempo dell’analisi dei dati, o quello dedicato agli articoli scientifici. Insomma, non ci si annoia mai!».

Qual è stato il percorso che vi ha portato a questo lavoro?
MB: «Io e Alice, di cui sono stata tutor, ci siamo laureate entrambe a Milano in Scienze Biologiche. Dopo il dottorato, ho iniziato la collaborazione con la fondazione Don Gnocchi: abbiamo vinto diversi progetti di ricerca e 11 anni fa sono stata assunta a tempo indeterminato; da 3 invece dirigo il laboratorio».
AG: «Anche io ho studiato biologia applicata alla ricerca biomedica e ho trascorso un periodo a San Francisco all’Università della California, poi nel 2014 sono entrata al LABION. Dal 2018 sono assunta a tempo indeterminato».

Quindi non è vero che si può fare ricerca solo all’estero.
MB: «La formazione italiana è competitiva anche all’estero, infatti i nostri ricercatori sono molto richiesti. È giusto fare esperienza fuori e bisogna restare in relazione con un ambiente europeo. Ma è ora di stimolare i giovani a restare in Italia, per non svalutare il nostro capitale umano e scientifico. Oltreconfine non è tutto oro quel che luccica: da tempo molti “cervelli in fuga” cercano di tornare a casa; riceviamo molte richieste».
AG: «Ci sono difficoltà di tipo contrattuale e di valorizzazione delle risorse, ma riusciamo a fare una ricerca di valore e concretamente utile anche da qui, mantenendo rapporti e collaborazioni con laboratori di tutto il mondo».

Che consigli dareste a una giovane che sta pensando di intraprendere la strada della ricerca?
MB: «Soprattutto alle ragazze dico che si può fare: noi donne siamo multitasking, sappiamo far convivere lavoro e vita privata. Sia io che Alice siamo sposate e abbaimo figli».
AG: «Direi di non abbandonare l’idea della ricerca solo perché ci sono difficoltà iniziali. È una strada che si sceglie per “vocazione”. Serve tanta passione, perché è un lavoro impegnativo ma gratificante e dinamico».

Cosa si potrebbe fare nelle scuole e università per incentivare questa professione?
MB: «Io toglierei il 3+2 all’Università tornando al ciclo unico come ai miei tempi. Per il nostro mestiere la laurea triennale non basta: serve un dottorato a cui non si può accedere con meno di 5 anni. Inoltre, gli studenti devono fare più attività pratica: il ricercatore è un mestiere “sul campo”».
AG: «Penso sia utile risolvere l’equivoco ricerca uguale università. È un difetto italiano pensare che la ricerca sia solo accademica: la si può fare in ospedali, aziende o altri enti. Io e Marzia non ci siamo trovate a nostro agio a lavorare nell’ambiente universitario ma abbiamo trovato comunque la nostra strada: ci si deve rimboccare le maniche, però non è impossibile».

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