La parabola discendente del Celeste

Diciotto anni ininterrotti di governo della regione più ricca d’Italia, dal 1995 al 2013. Con quattro elezioni vinte con percentuali bulgare. Macchiati per sempre dall’onta della corruzione.

La sentenza pronunciata ieri dalla Corte di Cassazione nei confronti dell’ex governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, lascerà per sempre il segno nella storia di questo territorio. Già, perché il “Celeste” – come veniva soprannominato l’ex presidente oggi 71enne – andrà in carcere per essere scivolato sul tema più importante del suo governo: la sanità, riformata con quella legge 31 del 1997 che fece entrare i privati nella gestione di prestazioni, visite e interventi.

Ancora oggi quella riforma lombarda viene presa a modello per una gestione più efficiente dell’assistenza al cittadino, ma la crescita di strutture “convenzionate” si può rivelare un boomerang. L’allievo lecchese di don Luigi Giussani è stato più volte in odore di prendersi la scena nazionale. Silvio Berlusconi l’ha sempre tenuto a distanza, consapevole che “due galli nello stesso pollaio” avrebbero difficilmente convissuto. Eppure, in tanti nel corso degli anni ripetevano a Formigoni che diciotto anni alla guida della Lombardia valevano più di un lustro in un Ministero pesante.

Era ambizioso, il Celeste: nel 2005 rischiò addirittura la rottura con Forza Italia pur di schierare una sua lista civica di moderati alle regionali, un modo per contare e pesare il consenso sulla sua persona in anni dove la popolarità di Berlusconi cominciava a scricchiolare. Dopo i fatti della Maugeri hanno cominciato in tanti a scaricarlo, dall’ambiente di Comunione e Liberazione alla politica.

Ieri sera – dopo la pronuncia della Cassazione – sono arrivati tanti messaggi di solidarietà, trasversali. Nessun giudizio sulla sentenza e sull’operato politico, ma molti appelli, anche dagli storici avversari del Celeste, contro la “legge spazza-corrotti” che apre le porte del carcere ad un ex politico di 71 anni, fuori dalla scena e per questo motivo impossibilitato – anche se volesse – a reiterare i reati per i quali è stato condannato.