Orticanoodles: «Writers? No, siamo muralisti. Le nostre opere dialogano con la città»

Hanno trasformato l’Ortica in un quartiere-museo e stanno cambiando la città, a suon di tinte forti e arte partecipata.

Writers? «No, siamo muralisti». Parola di Orticanoodles
Writers? «No, siamo muralisti». Parola di Orticanoodles

Non chiamateli artisti o writers. Loro sono “muralisti”, perché dipingono murales. Partito dal quartiere Ortica nel 2004, il collettivo Orticanoodles è diventato un punto di riferimento per la street art mondiale, con opere che si estendono per più di cinquanta chilometri quadrati, fra cui il murale da Guinness dei primati che ha colorato i 50 piani della Torre Allianz.

«Il progetto Orticanoodles è nato in modo spontaneo – racconta a Mi-Tomorrow Walter “Wally” Contipelli docente del corso in “Urban Design” all’Accademia di Belle Arti LABA di Brescia, che con la compagna Alessandra “Alita” Montanari ha fondato il collettivo nel 2004 –. La prima crew si chiamava TSO e facevamo stickering e affissioni di poster in luoghi inusuali di Milano, in linea con il format di street art connesso all’illegalità. Successivamente, le commissioni ci hanno portato ad un’evoluzione, trasformandoci in ciò che siamo oggi».

Qual è il ruolo delle commissioni nella vostra attività?
«Negli ultimi anni, le istituzioni hanno cambiato rotta e ora la scena è molto eterogenea. La diminuzione della repressione nei confronti della street art ha spinto i privati ad investire in questa forma di comunicazione».

Chi ci crede?
«Lavoriamo sia con i brand di comunicazione di tipo commerciale, sia con le fondazioni che lanciano bandi di collaborazione, a cui partecipiamo con progetti ad hoc: una modalità che sentiamo più affine alle nostre tematiche».

Quali sono i contesti più stimolanti?
«Quelli in cui i brand si mettono in gioco, lasciandoci maggior libertà. Magari chiedendoci di organizzare l’intervento dalla A alla Z, come una sorta di hub che si occupa autonomamente di individuare location e muri, allestire il cantiere, commissionare la pubblicità e, nella fase successiva, mantenere il muro».

In quindici anni è diventato un lavoro vero e proprio.
«Dagli anni ‘70, per intenderci dopo Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, la street art è entrata a far parte di circuiti più istituzionalizzati, diventando un linguaggio di comunicazione a tutti gli effetti e, di conseguenza, monetizzabile. A dare la spinta definitiva è la professionalizzazione nella realizzazione di facciate di grande formato, avvenuta negli ultimi anni».

Qual è il vostro rapporto con Palazzo Marino?
«Già dalla Giunta Pisapia abbiamo aperto un dialogo che sta continuando con l’amministrazione attuale. Ad esempio, stiamo lavorando in modo congiunto ad una semplificazione delle procedure, cercando di individuare muri il cui ripristino sia appealing per il cliente, per il condominio e per il Comune. L’opera innanzitutto deve essere site specific, cioè dialogare con il contesto che la circonda».

Com’è possibile disegnare su pareti anche di 200 metri?
«Con la tecnica rinascimentale dello “spolvero”, utilizzata anche da Michelangelo per dipingere la Cappella Sistina».

E come si svolge il processo?
«Si parte da disegni su carta in scala 1:1 che vengono forati nei contorni e poi applicati al muro. La fase successiva è quella di andare a riempire tutti i fori, formando così un disegno. Questo ci permette di velocizzare il lavoro e avere un controllo stilistico, anche con persone che non hanno mai dipinto un murales in vita loro».

Cioè?
«Spesso non siamo solo noi Orticanoodles a lavorare, nei nostri progetti coinvolgiamo la gente del quartiere, studenti, ragazzi con difficoltà e volontari. Ad esempio, l’opera dedicata a Dario Fo sulla facciata della Scuola civica di teatro Paolo Grassi è stata realizzata con il coinvolgimento dei ragazzi di B-Live, il progetto della fondazione Near rivolto agli adolescenti con patologie croniche. Sono cantieri imprevedibilmente magici».

Qual è stata l’ultima opera milanese?
«A novembre il CDD, Centro disabili diurno di via Anfossi. Un intervento da 400 metri quadrati che ritrae, in modo molto astratto delle genzianelle, fiori particolari che sopravvivono anche in condizioni climatiche avverse. Una caratteristica che, a nostro parere, è molto viva in alcuni tipi di disabilità».

In questo caso, la specificità dell’opera è legata al contenuto…
«La stratificazione dei messaggi è un’altra componente del nostro lavoro. Non è importante che chi lo guarda riconosca i fiori e il messaggio che vogliamo comunicare: l’opera deve essere notata ma non deve essere una prevaricazione. Se lo spettatore ricava un significato proprio, meglio ancora».

Un luogo milanese che, per vari motivi, è inaccessibile ma che vi piacerebbe dipingere?
«Un muro giallo molto esteso in piazza Cardinal Ferrari. Purtroppo, è vincolato dalla Soprintendenza».

Qual è il lavoro a cui tenete di più?
«Sempre l’ultimo, perché racchiude il precedente e la ricerca che facciamo per il prossimo».

Se ne dovessi scegliere uno?
«Un lavoro fatto a Carrara, mia città natale e il primo cantiere partecipato con un liceo artistico, nel 2011, per l’Ospedale Carlo Poma di Mantova».

I prossimi progetti?
«Abbiamo un progetto con Autostrade per dipingere le aree di servizio. Ne abbiamo fatte 14 e ne rimangono ancora 236».

«Stiamo lavorando in modo congiunto ad una semplificazione delle procedure, cercando di individuare muri il cui ripristino sia appealing per il cliente, per il condominio e per il Comune. L’opera innanzitutto deve essere site specific, cioè dialogare con il contesto che la circonda»

Writers? «No, siamo muralisti». Parola di Orticanoodles
Writers? «No, siamo muralisti». Parola di Orticanoodles