È “Meglio di un mazzo di fiori”, di nome e di fatto, la tavoletta di cioccolato con cui la cioccolatiera belga Charlotte Dusart invita tutte le donne a festeggiare l’8 marzo nella sua bottega artigiana di via Eustachi. «È una tavoletta al gusto fragola ripiena di cremino all’arachide leggermente croccante per un piacevole effetto dolce-salato», dice l’artigiana a capo di un team tutto al femminile.
Charlotte Dusart: «Milano è una città dove la concorrenza è alta e bisogna sempre pensare qualcosa di nuovo per essere competitivi»
Cosa rappresenta per lei la Festa della Donna?
«La Festa della Donna nell’accezione italiana per me è una cosa abbastanza nuova. In Francia, dove trascorro parte del mio tempo, e in Belgio dove sono nata, la celebrazione dell’8 marzo non contempla regali: è una giornata di lotta per l’uguaglianza dei diritti tra uomo e donna. Devo dire che l’idea del regalo mi piace tanto, ma credo non debba occultare la lotta per i diritti soprattutto per azzerare il gap salariale tra i generi».
Secondo lei perché l’imprenditoria del food è ancora prettamente maschile?
«Credo sia un circolo vizioso. Essendoci poche donne imprenditrici nel settore, manca un esempio da imitare e questo alimenta nelle donne la paura di non essere capaci. Inoltre c’è anche una specie di sbarramento all’entrata perché gli uomini tendono a scegliere altri uomini perché spesso ritengono le donne inadatte, soprattutto per gli orari che, secondo loro, sarebbero incompatibili con il ruolo di madre. Gli stereotipi sono duri a morire».
Qual è il plus che le donne possono dare al mondo imprenditoriale del food?
«Una visione più larga, l’attenzione ai dettagli e alla cura degli altri. Questo è importante in un settore come il food in cui l’attenzione al cliente, e oggi più che mai al personale, è fondamentale».
L’arte del cioccolato è più maschile o femminile?
«Credo che come tutte le arti non abbia genere».
È stato facile fare impresa a Milano?
«Io ho avuto la fortuna di rilevare un’attività e non ho dovuto cominciare da zero. Detto questo in Italia gli adempimenti amministrativi sono tanti, le tasse pesanti e l’aiuto dello Stato quasi inesistente. Inoltre Milano è una città dove la concorrenza è alta e bisogna sempre pensare qualcosa di nuovo per essere competitivi».
Quali sono, oggi, le sfide che una donna che fa impresa deve affrontare?
«La prima è quella di decidere di mettersi in gioco. Poi essere donna ha una complicazione in più legata alla maternità: se si decide di diventare madri bisogna mettere in conto che ci sarà un periodo di almeno un anno in cui non si potrà dare il 100%. Detto questo basta organizzarsi scegliendo un team con cui instaurare un rapporto di piena fiducia e saper delegare».
Esistono differenze tra l’imprenditoria femminile in Belgio (dove è nata), in Francia (dove vive) e in Italia?
«Ho cominciato in Italia a 30 e non ho avuto alcun bonus. In Belgio e Francia se fai impresa sotto i 35 anni ci sono aiuti fiscali per l’assunzione del personale per i primi due anni, semplificazioni amministrative e aiuti per chi ha figli piccoli che in Italia non ci sono».
Il suo staff è tutto femminile: è una scelta o un caso?
«Non è sempre stato così, ci sono stati anche stagisti uomini. In generale non avendo avuto nel mondo del cioccolato esempi femminili da seguire, mi piace dare l’opportunità a donne molto capaci di far crescere la stima in loro stesse. E poi essere tutte donne annulla il problema del sessismo: la nostra è una piccola community in cui si può parlare di tutto».
A dare retta agli stereotipi mettere insieme tante donne genera problemi di invidia e rivalità. Lei ha avuto questo tipo di problemi?
«Non credo alla storia delle troppe galline nel pollaio che s’azzuffano, e poi invidia e rivalità credo siano più maschili. Per evitarle occorre una buona gestione del personale: dare spazio e valorizzare il lavoro di tutte»
Qual è il suo auspicio per il futuro delle donne imprenditrici nel food?
«Di credere in loro stesse, di concentrarsi sul proprio lavoro facendo il meglio e valorizzando le persone che lavorano con loro. Se ce l’ho fatta io che ho fatto impresa arrivando in Italia dal Belgio senza conoscere la lingua, ce la possono fare tutte».