“Famiglia” è, in questo momento, la parola più importante per Franco Aliberti che da 16 mesi è papà di Filippo, nato dall’unione con la blogger e scienziata ambientale Lisa Casali. Non per caso, nel post in cui l’11 ottobre ha annunciato ai suoi follower l’addio alla cucina di Anima e Vertigo, i due ristoranti dell’hotel Milano Verticale gestiti da Enrico Bartolini, lo chef campano ha rimarcato la parola mettendola tra virgolette. «La vita è come un libro, io ho deciso di scrivere il mio di capitolo, dal titolo “Famiglia”», ha scritto, precisando però che il suo «non sarà un addio al mondo della cucina, ma solo un arrivederci».
Lo chef Franco Aliberti: «È solo un arrivederci, non un addio»
È stata una scelta difficile?
«Tutte le scelte lo sono. Questa è stata ponderata e l’ho concordata con Enrico (Bartolini, ndr). Ho lasciato i ristoranti al termine del preavviso e per qualche giorno ho affiancato il nuovo chef, il pugliese Michele Cobuzzi che è molto valido. Per un po’ mi dedicherò esclusivamente alla famiglia anche se, naturalmente, non potrò farlo a tempo indeterminato perché la pagnotta a casa la devo portare (sorride). Però tornerò a fare il mio mestiere in modo diverso facendo coesistere il lavoro da cuoco con la famiglia».
Detto così sembra facile.
«Deve tornare a esserlo. C’è qualcosa di profondamente sbagliato se nel 2021 questa coesistenza è ritenuta impossibile. Ma è ancora più preoccupante l’alta percentuale di abbandono di molti dei giovani che si approcciano a questo mestiere dopo i primi periodi di stage o di lavoro».
Quello della mancanza di personale nella ristorazione è un tema ricorrente. È stato tirato in causa anche il reddito di cittadinanza che allontanerebbe i giovani dal lavoro.
«Credo che il tema sia più complesso. In molte cucine, alcuni Maestri continuano a utilizzare dei metodi “antichi” infierendo, come si faceva quando ero giovane, sui punti deboli».
Viene in mente il metodo “Masterchef”.
«Anche lì, stagione dopo stagione, le cose sono cambiate: non ci sono più piatti rotti! Bisogna capire che le cose sono cambiate e si può insegnare anche in un’altra maniera perché, altrimenti, nessuno vorrà più fare il cuoco. Bisogna far capire che il nostro lavoro è bello e si fa in squadra».
L’adagio comune, però, è che un cuoco non ha orari e, soprattutto, lavora quando gli altri si divertono.
«Nel tempo gli imprenditori hanno fatto diventare tutto questo una normalità con una discrepanza notevole tra ciò che è scritto sui contratti e la realtà».
Il lockdown che ha permesso a molti di riassaporare la normalità della famiglia ha acuito il malessere della categoria?
«Ha dato la possibilità di riflettere sulla necessità di far convivere lavoro e vita privata. Noi siamo cuochi, non certo medici il cui intervento può fare la differenza tra la vita e la morte. Cuciniamo per la gioia di farlo e per rendere felice chi mangia i nostri piatti, non per stare su un piedistallo».
Il sistema delle Guide, delle stelle e dei riconoscimenti influisce sul lavoro in cucina?
«Mette sotto stress le brigate di chi vuole ottenere quel tipo di riconoscimenti. C’è un motivo per cui la maggior parte delle brigate di un certo livello cambiano componenti con grande frequenza. È il risultato di un sistema malato che punta sullo sfruttamento del dipendente».
La soluzione non potrebbe essere quella della doppia brigata?
«All’estero sì. In Italia, vista l’alta tassazione sul lavoro dipendente, è impossibile. Però un buon imprenditore potrebbe modulare aperture e riposi».
Questo è un tema di sostenibilità, che da sempre ti sta a cuore, che non è soltanto ambientale o energetica, ma anche di etica del lavoro.
«Per me si tratta di una filosofia di vita. Non mi sono mai nascosto dietro a un dito. Credo che senza introdurre all’interno delle cucine il tema della sostenibilità umana e continuando con il sistema attuale di sfruttamento del personale, il nostro lavoro è destinato a morire. Bisognerebbe poter cucinare al ristorante come a casa, senza paura di essere giudicati».
Adesso che non cucini più al ristorante, lo fai a casa?
«In casa cucino sempre io. Farlo mi fa stare bene».
Lo fai anche per il piccolo Filippo?
«Sì, per lui abbiamo adottato lo svezzamento graduale facendogli mangiare quello che prepariamo per noi. Lisa, però, continua ad allattarlo».
Com’è essere papà?
«Stupendo, chiude il cerchio della vita e ti fa rendere conto che certi momenti non vanno persi. Un’esperienza da prescrivere a tutti. Sono felice di poter affiancare mia moglie più da vicino in questo percorso, per Filippo vederci insieme è fondamentale».
Hai detto che tornerai a fare il cuoco in maniera diversa. Sai già come?
«No. Di sicuro con qualcosa che possa segnare una rottura con il passato. Le idee sono tante e devono essere scremate. Nel frattempo continuerò a condividere le mie ricette, la mia filosofia e il mio stile di vita attraverso i social e approfondirò scientificamente il mio lavoro da cuoco. Sono nato pasticciere e ho il pallino del rigore scientifico».