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28. 04. 2024 23:42

Daniel Zaccaro dagli sbagli a Kairos: «Ero un bullo e adesso aiuto quelli come me»

Nato e cresciuto a Quarto Oggiaro, racconta la sua esperienza, dopo essere finito in carcere è diventato un educatore: «La cosa più difficile è far capire che esiste un’altra prospettiva, più bella»

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Daniel Zaccaro è il protagonista del libro di Andrea Franzoso Ero un bullo (De Agostini, 245 pagine) e oggi educatore presso la comunità di accoglienza Kairos di Vimodrone. Nato e cresciuto a Quarto Oggiaro, scelte sbagliate sin da giovanissimo, partite proprio dall’esercitare il bullismo nei confronti dei coetanei, sono state seguite da piccoli reati, che si sono trasformati in reati sempre più gravi, fino al carcere. Qui l’incontro fondamentale con un prete e con un’educatrice hanno portato Daniel a percepire che la vita poteva essere guardata da un’altra angolatura. Oggi, dopo una laurea in Scienze dell’educazione, Daniel fa un lavoro che restituisce questa storia a ragazzi che vivono di scelte sbagliate. Quelle che Daniel sa riconoscere molto bene.

Daniel Zaccaro educatore della comunità Kairos: «Per un educatore la fascia d’età degli adolescenti o ti piace o non ti piace. A me piace»

Tu vivi ancora a Quarto Oggiaro. Lo vedi con occhi diversi il quartiere?
«Sì. Sicuramente è migliorato esteticamente, sono state fatte delle ristrutturazioni importanti, quello che non è cambiato sono le risorse sul territorio. Abbiamo degli oratori che sono poco frequentati, perché c’è poca promozione e i ragazzi li abbandonano dopo la Comunione. Il nostro territorio offre pochi servizi rivolti agli adolescenti, ci sono pochissimi centri di aggregazione. Io ho lavorato anche in Comune, le conosco bene queste cose».

Qual è il problema?
«Come sempre le risorse destinate a queste cose. È un problema ormai secolare, nelle periferie è più difficile investire perché c’è poco ritorno. A volte si fanno grandi progetti, che sono molto rumorosi, calati dall’alto, vengono presentati come il cavallo di Troia per combattere la devianza giovanile, ma in realtà hanno davvero pochissimo effetto».

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La cosa più difficile del tuo lavoro?
«Far capire ai ragazzi che c’è un’altra possibilità di vita, perché alcuni sono chiusi e pensano che l’unica via sia il successo, i soldi, l’istinto di fare quello che si vuole senza impegnarsi. Il difficile è far capire che esiste un’altra prospettiva, più bella. Un po’ più impegnativa, ma si sa, le cose che hanno più impegno hanno anche più valore».

Quando vai nelle scuole poi all’uscita vogliono farsi le foto con te, questo è significativo?
«Io con i ragazzi cerco di essere me stesso, non recito nessuna parte, perché sono molto abili e ti “sgamano” subito se ti metti un vestito che non è il tuo. Io cerco di essere anche provocatorio, di parlare come loro e lo so che alcuni pedagogisti non sono d’accordo, ma io per entrare nel loro mondo mi devo un po’ vestire così, poi è ovvio che si entra per uscire… Ma poi mi piacciono, mi stanno simpatici, non ci posso fare niente. Per un educatore la fascia d’età degli adolescenti o ti piace o non ti piace. A me piace».

La soddisfazione maggiore del tuo lavoro in comunità?
«Tantissime. Non mi posso basare sui risultati, non esistono numeri, né ragazzi che ce l’hanno fatta o che non ce l’hanno fatta. La mia soddisfazione è incontrarli, stare con loro, farmi consegnare la loro storia di vita, le loro paure e i loro desideri, ma soprattutto mi possono insegnare tanto, perché ogni volto di ragazzo che incontro è una parte di me che devo ancora conoscere».

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