Brexit sì o no? Milano è in attesa. Ma c’è il caso British Council

brexit
brexit

Una matassa difficile da sbrogliare; un enorme cubo di Rubik che, mossa dopo mossa, sembra sempre più arduo risolvere: così appare oggi la Brexit. Il 23 giugno del 2016, in barba ai pronostici, al referendum sulla permanenza o meno del Regno Unito nell’Unione europea il Leave vince con il 51,9% delle preferenze. Nove mesi dopo, nel marzo 2017, parte il meccanismo di uscita: due anni la durata prevista dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona per la formalizzazione dell’accordo di recesso.

Tutto è, in realtà, ancora in gioco: un accordo tra Londra e Bruxelles c’è, ma la House of Commons lo ha già bocciato due volte e in settimana ha pure, in modo inedito, strappato il timone alla premier, con il Parlamento che avrà libertà di organizzare votazioni in aula su possibili piani alternativi a quello senza numeri di Theresa May.

Tra le opzioni su cui i deputati potrebbero esprimere il proprio parere: una Brexit più morbida, mantenendo, per esempio, legami stretti con il mercato unico; un nuovo referendum (chiesto a gran voce da un milione di manifestanti scesi in piazza lo corso weekend a Londra); la cancellazione dell’uscita dell’Ue. L’adozione dell’intesa è la condizione posta dall’Unione europea per un’uscita ordinata del Regno Unito: se l’accordo verrà votato, il divorzio avverrà con un breve rinvio al 22 maggio; in caso contrario, Londra avrà tempo fino al 12 aprile per decidere se tenere le elezioni europee (in programma a fine maggio), opzione che permetterebbe di chiedere una nuova proroga.

L’alternativa è l’uscita senza accordo, quel no deal che, tuttavia, inquieta per le pesanti conseguenze che potrebbe avrebbe sull’economia inglese.

Milano monitora con attenzione l’affaire Brexit: un po’ perché ballano tre miliardi di euro d’interscambi con l’Inghilterra, un po’ perché vuole provare a portare all’ombra della Madonnina istituzioni europee ma anche – più difficile – imprese e servizi finanziari privati in uscita da Londra.

Persa l’agenzia del farmaco, finita al sorteggio ad Amsterdam, Milano ci riprova con il Tribunale dei brevetti, in particolare la sede londinese specializzata nel chimico-farmaceutico: la candidatura, lanciata dall’Ordine degli avvocati milanesi, ha ricevuto subito il placet del sindaco Sala e del governatore Fontana e la piena disponibilità del ministro degli Esteri Moavero Milanesi, il quale si è detto disponibile a impegnarsi, a fronte di un’opzione in tal senso del governo, da prendersi anche alla luce di una valutazione dei costi.

Punto di forza sono i numeri: l’Italia è il quarto paese europeo per numero di brevetti depositati e la Lombardia, con il 33% dei brevetti nazionali, ha il primato dell’innovazione in Italia, undicesima in Europa per investimenti in ricerca e sviluppo, prima tra le regioni italiane. L’approdo del Tub, senza contare l’indotto, sarebbe un’ulteriore spinta su questo fronte. Nei prossimi mesi se ne saprà di più: di certo c’è che al tavolo del Risiko Brexit Milano è seduta e gioca la sua partita da protagonista.

Il “caso” British Council
Brexit preventiva o ristrutturazione aziendale?

Fa discutere la procedura di licenziamento collettivo per 19 dipendenti (dieci a Milano, sei a Roma, tre a Napoli), dirigenti e coordinatori degli insegnanti, annunciata a fine febbraio da British Council Italia: lo storico ente britannico, che dal 1934 promuove l’insegnamento della lingua e della cultura inglesi in tutto il mondo, parla di esuberi strutturali e della necessità di una ristrutturazione aziendale, puntando su nuove figure.

I sindacati, che hanno già incontrato l’ente a più riprese, chiedono il ritiro complessivo dei licenziamenti, mettendo in campo soluzioni diversificate per offrire opportunità di lavoro nelle nuove posizioni individuate nel piano industriale al personale dichiarato in esubero e la ricollocazione in posizioni fungibili, con anche un aumento degli incentivi all’esodo rispetto a quelli finora offerti. Ci sono già stati due scioperi, l’ultimo oggi, e un altro si terrà il 6 aprile.

C’è anche chi parla di una “Brexit preventiva” da parte dell’ente britannico: è così? «La tempistica potrebbe far sorgere qualche dubbio, ma no, niente a che vedere con la Brexit» chiarisce a Mi-Tomorrow Paul Sellers, direttore di British Council Italia.

Perché allora questi tagli?
«Siamo l’istituzione culturale del governo britannico, ma non riceviamo alcun sostegno dai fondi pubblici della Gran Bretagna: il nostro è un “negozio” come tanti altri e dobbiamo dirigerlo in modo sostenibile ed efficace. Non si tratta di una contrazione di personale, ma di una ristrutturazione: investiamo in nuovi posti di lavoro».

Da un lato gli scioperi, dall’altro il confronto con i sindacati: qualche passo in avanti?
«Stiamo negoziando con serietà: vogliamo tutti proteggere i posti di lavoro, per quanto possibile. Crediamo di aver proposto un buon incentivo all’esodo e abbiamo un piano d’investimenti per il futuro, che salvaguarda anche i costi, e speriamo che si possa trovare una soluzione che non danneggi troppo i nostri clienti».

Il mercato in cui operate è diventato nel tempo molto affollato e competitivo, con un’offerta sempre più ampia e una grande concorrenza: questo ha inciso?
«Il mercato è cambiato tantissimo e per mantenere la nostro posizione ai vertici dobbiamo cambiare: la gente oggi vuole più flessibilità negli orari, ci sono maggiori richieste da parte di bambini e ragazzi e, soprattutto, si vuole imparare l’Inglese vicino a casa o al luogo di lavoro. C’è, poi, tutto il capitolo del digitale: le lezioni face-to-face resistono, ma i clienti si aspettano un elemento di modernità, un’innovazione tecnologica e, come tutti, anche noi dobbiamo cambiare – e in parte già lo stiamo facendo – per restare competitivi».

A livello d’iscrizioni, c’è stato un calo?
«Sì, un calo c’è stato: non perché non vi sia più richiesta, ma per non essere posizionati in maniera ottimale sul mercato in questo momento. Un’indagine condotta in tutta Europa conferma come la richiesta di corsi d’Inglese rimarrà forte, forse più per i ragazzi e un po’ meno per gli adulti: il calo, insomma, si può contrastare, ma dobbiamo cambiare».

Fin dall’immediato post referendum voi, come British Council, avete detto che «Il Regno Unito resta europeo» e che «la cultura, la lingua, le idee non conoscono frontiere»: avete timori per il futuro?
«Non siamo un ente politico, ma per la prima volta abbiamo sentito l’esigenza di prendere posizione, perché l’Europa per noi è fondamentale: i legami culturali ed educazionali rimangono vitali e potranno aiutare la costruzione di fiducia reciproca, qualunque sarà la soluzione politica che alla fine verrà raggiunta. Abbiamo ricevuto risposte molto forti e calorose da parte del Miur, dal Mibac e di tutti i nostri partner, che ci hanno confermato la loro fiducia e la volontà di proseguire la collaborazione». AR

I NUMERI

· 4 miliardi di euro,
Il costo complessivo della Brexit per l’Italia in caso di no deal

· Oltre 600mila,
I posti di lavoro a rischio nel mondo con una hard Brexit (più di 46mila in Italia)

· 35 miliardi di euro,
l’interscambio italiano con il Regno Unito nel 2018

· 9 miliardi di euro,
Il valore degli scambi lombardi con la Gran Bretagna

· 3,4 miliardi di euro,
Il giro d’affari tra Milano e Londra

· +33%,
L’incremento di giovani professionisti inglesi che fuggono da Londra

(Fonti: EY; Report IWH Potential international employment effect of a Hard Brexit; Elaborazione della Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi e di Promos Italia su dati Istat; HousingAnywhere)

A cura di Mattia Todisco

Davide Brizzi
42 anni, tecnico informatico
Non sono così catastrofista per gli inglesi, credo che potrebbero avere una maggiore indipendenza, anche se storicamente non sono mai stati un popolo così legato alle radici europee. Hanno sempre conservato la loro moneta, ad esempio. In generale credo che la misura sia stata dipinta peggio di quello che è. L’aspetto positivo per i cittadini europei, invece, è che tutto quel che lascia Londra rimane agli altri.

Valentino Bravi
62 anni, manager
Per gli italiani è una situazione favorevole. Dobbiamo essere capaci di vederla come un’opportunità. Purtroppo una di queste l’abbiamo persa noi italiani con l’Ema, l’Agenzia europea del farmaco, perché ce l’hanno “scippata”. Già oggi molte banche si stanno trasferendo altrove. È chiaro che se fossi un cittadino inglese penserei esattamente l’opposto. Non ho capito perché hanno votato in questo senso.

Fabio Bravi
33 anni, impiegato
Va considerato come un fattore non secondario il fatto che il provvedimento sia stato votato con larga maggioranza da parte dei cittadini meno istruiti, nella “city” non penso fossero così favorevoli. Io, se fossi stato inglese, avrei votato no. Gli effetti si possono vedere già oggi. Un esempio: si vocifera che Jp Morgan abbia appena preso gli uffici per trasferire gli italian speaker a Milano.

Alberto De Biasi
47 anni, consulente
Credo sia una bomba esplosa in mano ai britannici ben oltre le loro intenzioni. I promotori della Brexit hanno fatto promesse facili da recepire e che conquistavano la popolazione. Mi sembra una situazione in cui tutti hanno da perdere: gli inglesi più di tutti, ma anche gli europei che hanno degli investimenti in Gran Bretagna. E poi ci sono delle cose strane: James Dyson era un sostenitore della Brexit, ma è finito col trasferire il quartier generale a Singapore.

Gabriele Sturaro
40 anni, bancario
Ci sono troppe cose in ballo per poter dare un giudizio definitivo nel bene o nel male. L’unica cosa che sottolineo è che mi sembrerebbe strano fare un secondo referendum, come ha chiesto più di qualcuno. Creerebbe un precedente molto pericoloso il fatto di non accettare il voto popolare. Bisogna accettarne anche le conseguenze. In ogni caso per gli europei che non vivono in Inghilterra non vedo grandi ricadute.


www.mitomorrow.it

www.facebook.com/MiTomorrowOff/