E’ milanese di adozione e rientra sicuramente nella categoria delle donne influenti del territorio, perché ha saputo affermarsi e portare un tocco di innovazione in una professione troppo spesso considerata prettamente maschile: Federica Verona svolge dal 2004 attività di ricerca come architetto e urbanista, nell’ambito delle tematiche relative al disagio abitativo.
In città ha coordinato “Zoia”, un progetto di social housing per il Consorzio Cooperative Lavoratori ed è partner fondatore di Super, il festival delle periferie. Per il numero 1.000 di Mi-Tomorrow ha scelto di raccontare il suo rapporto con la città.
Com’è il suo rapporto con Milano?
«Ora di grande amore, ma quando mi sono trasferita per viverci, ormai quattordici anni fa, ho avuto paura di aver sbagliato città. All’epoca ero squattrinata, avevo lasciato tutti i miei amici a Venezia, dove ho vissuto dieci anni, e Milano mi sembrava così grande e fredda. Mi colpiva che nessuno ti chiedesse “come stai?”. Poi il tempo è passato, ho imparato a conoscerla e osservarla in tutte le sue pieghe e ora non potrei farne a meno. Alla fine è un grande paese».
Come immagina la Milano del futuro?
«La immagino una città per tutti, capace di accogliere e allargare i suoi confini. Immagino un futuro dove si possa parlare di Milano e di città metropolitana come di un’unica città policentrica, viva culturalmente e internazionale, capace di dare occasioni abitative per tutti e servizi di prossimità capaci di animare la vita tra le case. Ma, tornando alla realtà, temo sarà invece una città sempre più costosa e quindi escludente, per pochi. Le grandi trasformazioni in atto e il “modello Milano” rischiano infatti di provocare processi di gentrification, così le persone con redditi bassi si spingeranno sempre più oltre i confini in una città metropolitana, oggi, un po’ dimenticata».
Come la città ha accolto la sua professione?
«Io sono arrivata a Milano perché ho fatto una tesi di laurea in urbanistica che osservava come gli homeless abitano la città, un tema che mi è caro anche oggi. Solo a Milano, rispetto ad altre città italiane, avrei potuto avere un punto di osservazione così vicino e solo a Milano, la mia curiosità per “l’abitare difficile”, poteva diventare una professione. Milano sa dare molte opportunità, oggi sicuramente più di 14 anni fa, e sa aprire gli sguardi dando spazio anche alle direzioni meno convenzionali che si possono prendere».
Quanto l’ha influenzata vivere qui?
«Il fatto di abitare in una città grande, comunque internazionale e cosmopolita, ovviamente influenza molto la direzione che si prende. Fossi rimasta a Pordenone (la mia città di origine) non avrei sicuramente avuto le occasioni di formazione che ho avuto e ho qui. Se dovessi mai andarmene da Milano, per qualche strano caso della vita, sceglierei comunque una città ancora più grande, magari con il mare».
Ritiene che la realtà milanese riesca a valorizzare le donne?
«Credo che in Italia, più in generale, ci sia ancora un grande problema con le donne. Il maschilismo esiste, è palpabile, lo si capisce dal numero di donne sempre troppo esiguo ai convegni, nelle posizioni di potere, nei ruoli chiave di questa società. Di sicuro Milano è una città ricca di donne impegnate, capaci di mostrare il proprio valore e le proprie capacità. Ma temo ci sia ancora molto lavoro da fare per essere valorizzate quanto meritiamo».
Quale valore aggiunto offre alla città un festival come Super?
«Prova a dare voce alle realtà attive dei quartieri che sanno fare la città e spesso sono inascoltate. Associazioni, gruppi informali, singoli individui che sanno rispondere a bisogni inventando nuove regole e utilizzando in maniera generosa il proprio tempo. Dare voce a chi in periferie è attivo, per noi di Super, è l’occasione di fare anche conoscere luoghi spesso inesplorati».
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