Fabio Concato: «Umarell, parlo con te»

Il regalo del cantautore: «Le persone hanno bisogno degli artisti, siamo un pronto soccorso di conforto»

L’Umarell è il titolo della nuova canzone scritta, prodotta e cantata da Fabio Concato, come dedica speciale – in dialetto milanese – agli italiani e alla loro priorità di riemergere dopo la pandemia. Il brano può essere visto e ascoltato gratuitamente sui canali Facebook, Instagram e YouTube del cantautore milanese.

 

Fabio Concato racconta la sua Umarell

fabio concato
Fabio Concato

Fabio, come sta trascorrendo la sua quarantena?
«Alla fine la vita non è mi è cambiata molto. Scendo spesso dalla mia abitazione in Corso Vercelli per comprare il giornale o fare la spesa. Nel corso di questa nuova fase ho trovato i milanesi molto responsabili ed attenti, tranne quei due “pirla” che parlano al telefono con la mascherina abbassata».

Ha visto cambiare molto il suo quartiere?
«La cosa che mi ha più colpito è stato vedere botteghe storiche della mia zona chiudere per sempre. I decreti e le ordinanze non possono prevedere tutto, ma oggi regna una nebulosa confusione. I milanesi, però, stanno reagendo da milanesi».

“Se sta mai coi man in man”, insomma.
«I milanesi hanno sempre lavorato, cercando di fare tutto quello che è possibile. Guai se non sopravvivesse la milanesità che risiede in dignità, rispetto e decoro. Però sarebbe imperdonabile pensare che tutto possa tornare come era prima, significherebbe che non abbiamo imparato nulla da questo “sberlone”. Dobbiamo essere intelligenti».

Come nasce la storia di L’umarell?
«Tutto ha avuto inizio da un regalo: dopo mesi rinchiusa in un cassetto, avevo posto sul leggio della tastiera una vecchia statuina di dieci centimetri raffigurante lo storico “umarell”, quell’anzianotto un po’ brontolone, fermo davanti ai cantieri e agli scavi. Un paio di settimane fa ho avuto la sensazione che mi parlasse e mi dicesse “Fabio, cosa intendi fare?”».

E poi?
«In tempi record mi ha ispirato questa canzone. Ho acceso il microfono, registrato tutto con il telefonino ed inoltrato ai miei musicisti. L’ho voluta condividere subito e i primi commenti positivi – che in realtà non mi aspettavo – mi stanno dando molta soddisfazione».

Come mai è sorpreso?
«Sono sempre stato un autore mosso, per lo più, dal bisogno di esprimere qualcosa di decoroso da dire, in musica e parole. Se non sentissi più questa necessità, non scriverei più».

Sul finale quel “Ciao Enzino” è un saluto a Jannacci.
«Spesso mi sono chiesto come avrebbe affrontato lui questa situazione. Il suo profondo senso del dovere da medico, senza dubbio, lo avrebbe portato a lavorare in prima linea, 28 ore al giorno. Enzo manca molto ai milanesi, mi piacerebbe ascoltarlo di più nelle radio italiane, è un peccato che manchi oggi questa attenzione verso quello che ci ha lasciato».

Si parla di un progetto a due con suo figlio, Paolo.
«Mi ero ripromesso, prima dello stop generale, di recuperare il repertorio di Enzo a favore di un nuovo progetto discografico: ho contattato Paolo (Jannacci) per coinvolgerlo nell’arrangiamento di uno o più brani. Sono sempre più motivato a farlo in futuro per far riscoprire non tanto i brani più noti, ma le perle meno conosciute del mio caro amico Enzo».

In cosa i giovani oggi dovrebbero imitare l“umarell”?
«Bella domanda. Di certo questa pandemia ci ha invitato a riflettere su molte cose che prima avevamo sorvolato e spero che nei ragazzi qualcosa si sia mosso dentro, ponendosi le stesse domande che ci siamo posti noi in questi giorni di incertezza. Mi auguro che domani potranno diventare più attenti al rispetto delle buone maniere, più consapevoli e ottimisti».

Non lo sono abbastanza oggi?
«Di certo non si può pretendere che a trent’anni si possa avere la maturità di un anziano. Però guardarsi intorno con consapevolezza è la strada giusta: assistere anche all’espansione di questa pandemia senza riflettere sul perché è un errore, come sorvolare sulle avvisaglie che la natura ci manda in continuazione. Non è un caso che il virus abbia avuto terreno fertile proprio qui, nel territorio lombardo, uno dei più inquinati a livello europeo».

Si sarebbe potuto fare qualcosa in più per limitare i danni?
«Qualcosa in più non so, ma qualcosa prima sicuramente. Generalmente in Italia le dimissioni non si usano, sebbene in altri paesi civili si dimettano per molto meno. Alla fine di tutto dovranno venire fuori i responsabili di tanta morte, noi lombardi ci aspettiamo come minimo delle scuse. Se in Veneto, ad esempio, è andata diversamente vuol dire che diversa è stata la gestione dell’emergenza».

Cosa le manca maggiormente oggi?
«Quel paio di ore condivise con il pubblico durante un concerto: per me cantare è l’unico momento in cui mi sento assolutamente me stesso e privarmi di questo, oggi, è molto difficile».

Lo sarà per molto tempo, secondo le previsioni.
«Siamo tutti in attesa, non solo del vaccino. Nessuno sa quando ricominceremo, si parla dei primi mesi del 2021, ma è difficile. L’importante oggi è parlarne, fanno bene ad esporsi persone competenti, come ha fatto recentemente Paolo Fresu con il Ministro Franceschini».

L’appello di Fabio Concato

Il suo appello?
«Le istituzioni devono capire che le persone hanno bisogno di noi, funzioniamo come un pronto soccorso di conforto per la massa. Lo streaming può aiutare, certo, ma è solo una vetrina personale in grado di favorire la propria visibilità, ma non può aiutare i due milioni di lavoratori italiani che ci sono dietro».

Presto diventerà nonno. Cosa racconterà di Milano alla nuova generazione?
«Il rischio di raccontare la Milano dei ricordi è molto alto, non dovremmo cadere nel tranello di una malinconia fine a sé stessa, perché è quella a fare danni. Credo che mi limiterò a rispondere alle domande che la mia nipotina mi farà colmando, attraverso il racconto, tutte le sue curiosità».

Cosa si augura nel futuro?
«Avere la possibilità di cantare L’umarell non solo a Milano, ma nei teatri di tutta Italia, da Bolzano a Sciacca».