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27. 04. 2024 06:04

Malika Ayane racconta il suo ultimo album: «Per Malifesto ho ripreso a studiare»

Dopo Sanremo, ritroviamo una Malika Ayane pronta a dare il giusto peso ad ogni cosa: il nuovo album è un inno alle emozioni, sospeso nel tempo

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Se dopo anni di grande carriera si aspetta ancora con ansia il parere di pubblico e critica, vuol dire che la passione per questo mestiere è sempre molto forte. Malifesto è il sesto album di Malika Ayane, un disco per cui «mi sono rimessa a studiare», ammette la cantante milanese reduce dall’ultimo Festival di Sanremo.

Un manifesto di emozioni e stati d’animo. Cosa è successo nell’ultimo anno, artisticamente parlando, da averti portato a questo risultato?
«Intanto che mi sono rimessa a studiare (ride, ndr). Qualche anno fa mi hanno regalato una Telecaster bellissima, ho sempre il senso di inferiorità rispetto alle cose: se non puoi farle bene, non le fare affatto».

Sei ripartita dalle origini, insomma.
«Soprattutto dalle jam session, proprio perché il lavoro che avevo fatto su Domino era stato molto alla ricerca del dettaglio, con la voce trattata come qualsiasi altro suono».

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Cosa speravi di ritrovare in questa ricerca?
«L’istintività in musica, che però è possibile soltanto quando ti rimetti a studiare».

Quali sono state le tracce sulle quali hai dovuto lavorare maggiormente?
«Senz’altro Telefonami, perché mi è arrivato un testo molto efficace ma abbastanza divergente con il mio consueto modo di dire le cose. Abbiamo fatto un lavoro certosino, devo dire che Dimartino e Colapesce sono stati molto gentili a permettermi di farlo».

Hai avuto esperienze meno “cordiali”?
«Diciamo che tanti autori si sentono degli dei. Se cambi una virgola, a volte devi litigarci. In quel caso preferisco non prendere il brano, altrimenti avrei scelto di fare l’interprete. Avevo bisogno di dire le cose nel modo giusto, mi ci sono spaccata abbastanza la testa per trovare ogni peso insieme ai miei produttori, che hanno fatto un lavoro eccellente»

Quanto ci hai messo?
«Io sono abbastanza veloce, più che altro perché, non avendo tanto tempo a disposizione, tendo ad ottimizzare. Comunque, rispetto allo standard di una sessione di scrittura con Pacifico, abbiamo avuto bisogno di tre, quattro sessioni. E, quando hai un mese per fare un disco, direi che è una buona percentuale di tempo. Detto questo, secondo me il risultato è strepitoso».

Come sarà è un brano scritto con Leo Pari e parla di una sorta di rassegnazione. Celebri la tua maturità, le tue consapevolezze?
«È una canzone nata subito dopo Mezzanotte, il cui verso di lancio del secondo chorus è il mio nuovo mantra della vita».

Ovvero?
«È l’idea alla base del “va beh, pazienza”. Riguarda quello che non dipende da me. Insomma, perché devo stressarmi per cambiare qualcosa su cui non posso far nulla? Faccio tutto quello che posso per cambiare me difronte all’atteggiamento delle cose e tutto quello che posso migliorare lo miglioro, ma dove non posso arrivare, non ci arrivo».

In Mezzanotte, l’uso degli archi ricorda Sébastien Tellier. Non a caso, hai già fatto riferimento a quei mercati musicali di nicchia che fanno numeri grossi.
«Sébastien Tellier è la cosa più vicina ad una divinità per quel che mi riguarda. Penso a tutte le produzioni di Charlotte Gainsbourg, le più recenti ma non solo quelle, anche perché già il lavoro che aveva fatto con gli Air o con Beck erano secondo me pazzeschi. Ma l’ispirazione mi porta anche a Patrick Watson, a Devendra Banhart, agli stessi Jazzanova con cui ho fatto due dischi».

Cosa ti manca di più di Milano, da milanese vera?
«La sua vita. Mi manca il teatro, una cosa che a Milano funziona benissimo. E poi vorrei passeggiare per guardare la gente che fa la sua vita mentre parla ai tavolini di un locale. Vorrei tornare a vedere qualche mostra. Vorrei riassaporarla».

 

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