Coronavirus a New York: «È scoppiato tutto in una settimana»

Andrea Colombo, una vita a Milano, ha dovuto chiudere il suo ristorante a Manhattan per l’emergenza sanitaria: «Le persone, qui, non hanno capito»

coronavirus a new york
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Passeggiare per le strade silenziose di New York in queste ore fa piangere il cuore. Dopo la decisione – tardiva, ma sacrosanta – del governatore Andrew Cuomo e del sindaco Bill de Blasio di chiudere musei, biblioteche, teatri, scuole, bar e ristoranti per l’emergenza coronavirus, la metropoli più famosa del mondo è rimasta deserta nel giro di un fazzoletto di giorni.

 

Coronavirus a New York, parla Andrea Colombo

andrea colombo
Andrea Colombo

«E non abbiamo la più pallida idea di quando la situazione cambierà», dice Andrea Colombo. Da quattro anni co-proprietario dell’Italian Modern Osteria di Manhattan, è un ristoratore newyorkese nato e cresciuto a Milano.

Uno dei tanti che ha dovuto vivere gli effetti della decisione di chiusura totale dei locali, che rischia di sconvolgere gli equilibri commerciali della città: «Ho chiuso da sabato anche se l’obbligo era da martedì, qui le persone non hanno capito: fino a qualche giorno fa affollavano nei bar, è scoppiato tutto in meno di una settimana».

Andrea, da milanese ha visto la crisi coronavirus arrivare in Italia. Com’è diminuito il flusso dei clienti a New York?
«È stato un po’ strano, perché lunedì e martedì scorso (9 e 10 marzo, ndr) abbiamo fatto quasi record di incassi. Giovedì e venerdì, quando in genere andiamo forti, eravamo invece vuoti».

Si sarebbe aspettato di chiudere così?
«No, negli ultimi giorni avevo tagliato un po’ di turni e chiuso qualche ora prima, ma siamo stati in una bolla di sapone e abbiamo fatto finta di niente fino all’ultimo. Era inevitabile».

Perché?
«Perché avessi chiuso due settimane fa, dicendo al mio affittuario che “in Italia c’è l’epidemia e mi sa che arriva anche qui”, sarei stato l’unico in tutta Manhattan e mi avrebbero guardato come un matto».

Che supporto ha ricevuto dalle istituzioni cittadine?
«Alle realtà di medie dimensioni come la mia è arrivata l’offerta di un prestito da 75mila dollari a tasso zero, ma non ne ho usufruito».

Come mai?
«Non mi hanno spiegato entro quanto li dovrei ridare dietro e non so per quanto dovrò rimanere chiuso».

Che costi ha?
«Una realtà come la mia spende circa 30mila dollari al mese solo per vivere, senza personale da pagare, a porte chiuse e a luci spente».

Che precauzioni ha preso nei giorni precedenti all’esplosione dell’emergenza?
«Ho fatto passare l’igienizzante ovunque, comprato gel per le mani e chiesto a camerieri e bartender di usare i guanti, cambiandoli costantemente. Ma quando ti entrano cento persone nel locale, non puoi letteralmente controllare la situazione».

Quando si tornerà alla normalità?
«Per me non prima di settembre. Se l’affittuario mi desse la possibilità di congelare la situazione con un accordo, gli direi di aggiornarci tra quattro o cinque mesi. Serve lo shutdown totale per evitare il disastro».

La ristorazione non è sempre stata parte della sua vita.
«No, ho vissuto vent’anni come trader di borsa e sono laureato in Giurisprudenza. Ho visto Milano in tutte le salse e vissuto a lungo a Monza».

Ma la New York notturna di cui è ora parte tornerà come prima?
«Sì. Ai newyorkesi piace vivere fuori e spendere ciò che guadagnano. Non so però tra qualche mese che New York e che equilibri troveremo, il punto sta tutto lì».

Crede che la sua esperienza nella ristorazione rischi di esaurirsi a causa del coronavirus?
«L’opzione di chiudere i battenti c’è per tutti a New York, in questo momento. Dovesse accadere, sto pensando di tornare a Milano».

Coronavirus a New York, il contesto

Le bizze, poi Trump si è arreso

Vivere negli Stati Uniti nelle ultime due settimane è stato come immergersi in un doloroso deja-vu di quanto già visto in Italia, sull’emergenza coronavirus.

Dalla negazione del problema, con Donald Trump che ha paragonato il virus a una normale influenza in un tweet, appena quattro giorni prima di dichiarare emergenza nazionale, all’assenza di consapevolezza delle persone, che hanno continuato la loro quotidianità come se nulla fosse.

Il panico a New York è esploso in una manciata di giorni. Prima la chiusura di teatri, musei e biblioteche. Poi le scuole. Infine i bar e i ristoranti. Questa settimana ci si attende il lockdown totale della città, mentre la conta dei casi continua a crescere.

Questione di legge. Negli USA sono più di 4mila le persone contagiate dal coronavirus ma, secondo diversi esperti, i numeri reali sono più alti. Mancano i risultati di 900mila tamponi, elargiti dalla task force anti-coronavirus nominata da Trump.

Tamponi che sono stati destinati a strutture ospedaliere private, che non ne hanno mai trasmesso gli esiti al Centers for Disease Control, l’agenzia federale. Il motivo? Perché la legge non li costringe a farlo.

E ancora oggi manca un protocollo che sancisca come accedere ai test, in caso di sintomi. «Quando il numero di persone malate raggiungerà l’apice, non avremo letti ospedalieri a sufficienza per loro», ha ammesso il governatore Cuomo negli scorsi giorni.

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