Ammettiamolo. Per anni – e, in modo più accentuato, da Expo 2015 in poi -, abbiamo creduto in molti che la Milano “fighetta”, quella che innova e sperimenta, quella delle luci abbaglianti (e degli stagisti sottopagati), dei nuovi protagonisti intellettuali (influencer, artisti più o meno autoproclamatisi tali, star dei fondi di investimento e della creatività), avrebbe per forza di cose, per un’ineluttabile inerzia del destino, trascinato con sé il resto della città verso un futuro radioso e senza intoppi.
Non è andata così e la pandemia ha solo evidenziato e accelerato una questione sociale che prima o poi sarebbe emersa comunque. Si parla, a sproposito spesso e volentieri, di periferie come zone di degrado, di emarginazione sociale.
Si è parlato troppo poco, e male, in questi anni, di altri temi: il costo esorbitante delle case e degli affitti che costringe alla povertà e a soluzioni di fortuna migliaia di persone, un mondo del lavoro sempre più polarizzato tra chi ha una formazione altamente specializzata e di qualità, con reddito conseguentemente alto, e invece chi svolge lavori poco qualificati, con salari al limite della sussistenza e non tutelati.
Si parla di violenza, di rabbia, non si discute abbastanza – e si fa ancora meno – di come ricucire il divario tra i giovani che frequentano le scuole del centro (che fanno le vacanze studio in Inghilterra o negli USA, che possono viaggiare e scoprire il mondo) e i tanti, tantissimi giovani milanesi che non hanno l’opportunità di avere una formazione scolastica e culturale adeguata.
Ci siamo cullati e autocompiaciuti della Milano imbattibile, forte, inscalfibile dalla polvere degli squilibri. Adesso si torna a parlare di periferie, sbagliando ancora una volta. Perché la periferia non è un luogo fisico, i centri sono dove noi viviamo. La periferia è la diseguaglianza, la mancanza di opportunità, l’esclusione, la solitudine.