Si fa spesso un gran parlare della necessità di avere più giovani in politica e in posti di potere istituzionale. Un dibattito, seppur mosso da buone intenzioni di rinnovamento, che non tiene conto di un ragionamento generale necessario. Sia chiaro: fare della politica il proprio mestiere è una cosa nobile e che merita rispetto. C’è però una differenza rispetto al passato: un tempo esistevano i partiti, i loro apparati e strutture collaterali che consentivano carriere graduali, che imponevano formazione e studio, che davano sbocchi professionali dopo le esperienze di governo o rappresentanza.
Giovani in politica: è davvero il loro momento?
Oggi tutto questo non c’è. E quindi spesso ci si trova a vedere giovanissimi eletti, percettori magari di stipendi (più o meno lauti) che arrivano alla fine dei loro mandati davanti a un bivio: trovare il modo di farsi rieleggere o dover cercarsi, banalmente e crudamente, un lavoro come tutti. Non vedere il rischio di avere un personale politico appena trentenne alle prese con questi problemi rimanda il problema al futuro. Perché i rischi sono tutti evidenti: l’opzione del singolo che viene prima dell’interesse generale, la creazione di veri e propri gruppetti di potere o consorterie.
Giovani espertissimi nella costruzione di grandi macchine elettorali e di creazione di consensi e preferenze, ma che poi rischiano di trovarsi a 30-35 anni senza arte né parte. Non porsi questo tema, affidandosi ai luoghi comuni correnti del “giovane è bello”, così come in passato ci siamo fidati, troppo frettolosamente del “voto la persona, non il partito”, è l’ennesima occasione mancata a livello cittadino. Se Milano vuole essere avanguardia politica. Sia chiaro: non contro i giovani, ma a loro favore, per tutelarli e non farli diventare come tutti gli altri.